Corriere della Sera, 25 ottobre 2016
La regina dell’Everest
Non era una filosofa ma amava dire di sé che aveva una filosofia di vita. «La voglio vivere al massimo». E l’ultimo suo «massimo» è stato salire sulle pendici del monte Fuji, la montagna sacra dei giapponesi, a 77 anni quando il cancro l’aveva già sfiancata. La scalata prima della morte. I suoi occhi si sono chiusi per sempre nei giorni scorsi in un ospedale di Tokio. Junko Tabei era famosissima nel suo Paese. È stata la prima donna a scalare l’Everest, la prima a completare il «Seven Summits» (le vette più alte dei sette continenti), la prima a rispondere colpo su colpo ai numerosi maschi del suo Paese che trovavano indecoroso per una donna mettersi a scalare montagne invece di stare in casa a servire il tè e a fare le pulizie.
Un mito per le femministe di tutto il mondo. Un mito per i giornali dell’epoca che dedicarono pagine su pagine alla sua impresa del 1975, quando conficcò la bandiera giapponese a quota 8.850 metri. Tabei non si capacitava di tanta attenzione. «Cose dell’altro mondo», riferì a suo marito, che poi riferì a un giornale: «Non riesco a capire il motivo per cui gli uomini fanno tutto questo polverone sull’Everest: è solo una montagna».
Si divertiva Junko a fare la femminista. Le piaceva provocare. Inconsapevolmente divenne un simbolo dell’emancipazione delle donne per l’uguaglianza. Lei che non era un macho versione donna. Anzi. La più giovane di sette figli, alta appena un metro e cinquantadue, aveva un fisico gracile e un problema congenito ai polmoni che le provocavano spesso febbre alta. Tanto che non si è mai considerata un’atleta. Si allenava quotidianamente facendo stretching, mangiando poco e camminando a lungo. Con scarpe comode e fatte su misura. «In montagna ci andrò finché il fisico me lo permetterà». E sorrideva. Era mite. Solo una volta ha perso le staffe. Il giorno in cui passò alla storia.
Il 16 maggio 1975 aveva raggiunto quota 8.763 metri. Mancava poco alla vetta. Fece una buca nella neve per sedersi. Rabbrividì e contrasse i muscoli del viso per la rabbia quando si rese conto che per salire a 8.848 metri avrebbe dovuto attraversare un costone strettissimo che formava il confine tra Nepal e Cina. Un errore piccolissimo e sarebbe precipitata per cinquemila metri sul versante cinese; seimila e quattrocento su quello nepalese. Si scagliò come una belva contro la guida che non l’aveva avvertita del pericolo.
Junko conobbe suo marito in montagna. Fu molto divertita dal titolo di un giornale giapponese subito dopo l’impresa dell’Everest: «Scala la vetta e lascia sua figlia a casa con il padre». La scalatrice era nata a Fukushima e si sentiva una privilegiata: «Poter aprire una mappa del mondo e decidere dove, come e con chi andare». Solo negli ultimi anni la sua visione della montagna era cambiata: troppi attratti dalla gloria e dal prestigio. «Scalare l’Everest è diventato uno status symbol», disse.
Per una giapponese non è difficile convertirsi anima e corpo all’ambientalismo. Tabei subì il fascino di Edmund Hillary, il primo a raggiungere l’Everest nel 1953, che avrebbe preso a cuore la difesa del territorio. E così iniziò a insegnare ai giovani l’alpinismo sostenibile. E interessarsi del problema dei rifiuti all’Università del Kyushu. Tentando di calcolare la quantità di spazzatura accumulata sull’Everest dalla prima spedizione nel 1923, scoprì che solo al campo base, a 5.364 metri, gli scalatori hanno scaricato 1,03 milioni di litri di urina. «Bisogna ricordarsi che ci sono gli abitanti dei villaggi ai piedi dell’Everest che dipendono dalle acqua del disgelo».
A chi le faceva notare che la montagna è anche pericolosa e che a volte ci si muore, rispondeva: «Ogni volta che succede è scioccante. Ma niente e nessuno mi farà rinunciare ad arrampicarmi».