Affari & Finanza, 24 ottobre 2016
Sicuro, intoccabile e verso l’esaurimento il diamante diventa davvero per sempre
Milano I diamanti da investimento sono una realtà relativamente recente per il mercato italiano e in quanto tale stanno attirando l’attenzione degli operatori del settore del risparmio, dei risparmiatori e dei media. Oltre alla novità (e quindi alla mancanza di esperienza e conoscenza da parte dei risparmiatori), c’è un altro elemento che rende molto complicato l’investimento in diamanti, il bene stesso. Ogni pietra presenta caratteristiche diverse dalle altre e solo una ristretta cerchia di esperti è in grado sono in grado di stimare con precisione il valore di un diamante. Questo vale a maggior ragione per quelli più rari, perché anche il gioielliere di maggior successo ha sì visto migliaia di pietre in vita sua ma solo pochissimi diamanti rari.
A differenza dell’oro, che sotto molti aspetti presenta caratteristiche simili ai diamanti (è un bene fisico di rifugio), i diamanti non presentano caratteristiche standard e proprio per questo motivo non possono essere considerati una commodity. Non esiste un future sulle pietre preziose e questo spiega anche il perché non esistano fondi d’investimento o Etc sui diamanti. Se queste sono le difficoltà dell’investimento in diamanti, esistono altresì i vantaggi. Essi sono un investimento alternativo, categoria a cui i grandi investitori stanno dedicando sempre maggiore attenzione, sono un bene fisico che protegge gli investitori dai rischi d’emittente; inoltre la domanda di diamanti è in costante crescita e le miniere in attività sono destinate ad esaurirsi nell’arco di vent’anni.
L’investitore, pur dovendo districarsi in una materia certamente non semplice, ha però a disposizione importanti strumenti per allocare al meglio i propri soldi. Esiste innanzitutto il listino Rapaport che, se fino a pochi anni fa era tenuto segreto dagli operatori del settore, oggi è sostanzialmente disponibile su Internet. Fondato nel 1978 da Martin Rapaport, esso ha una cadenza settimanale (l’uscita è il giovedì pomeriggio) e raccoglie i prezzi a cui vengono scambiate le pietre preziose presso le tre principali Borse, Anversa, Tel Aviv e New York. Il Rapaport codifica le valutazioni delle circa 16.000 qualità brevettate dalla De Beers, un’impresa ciclopica che ha tenuto alla larga eventuali concorrenti. Ancora oggi la “lista” – come viene chiamata in gergo – è il punto di riferimento del settore e le pagine contenenti i prezzi sono di colore rosso per evitare che possano essere inviate a chi non ha pagato l’abbonamento tramite fax.
Oggi il fatto che le pagine siano ancora rosse è solo una tradizione perché sul Web esistono diverse piattaforme che offrono la compravendita di diamanti ai prezzi Rapaport. Negli Stati Uniti alcuni di questi market sono addirittura quotati in Borsa, mentre a Singapore opera il colosso Investment Diamond Exchange. Queste piattaforme fungono da broker e non guadagnano più, come avveniva in passato, sulla forte differenza fra i prezzi in acquisto e quelli in vendita ma con l’incasso delle commissioni su ogni operazione. I prezzi Rapaport non sono dunque più un’esclusiva di una stretta cerchia di operatori che pagano un abbonamento annuale di 800 euro.
L’altro imprescindibile strumento sono le certificazioni. Esistono vari enti che attestano le qualità di un diamante ma il riferimento più accreditato resta il Gemological Institute of America (Gia). Questa istituzione, nel 1953, introdusse gli standard di classificazione internazionali dell’analisi gemmologica, che possono essere sintetizzati nelle famose quattro “C”: Cut (taglio), Clarity (purezza), Color (Colore) e Carat (peso). Il Gia è un ente di formazione senza fine di lucro fondato nel 1931 a Los Angeles dal gioielliere Mr. Shipley con i propri risparmi allo scopo di fornire agli addetti della filiera dei gioielli le conoscenze di base per riconoscere e capire le pietre preziose.
Un altro aspetto che interessa molto gli investimenti è quello etico, visto che i diamanti sono stati spesso al centro di guerre soprattutto nel continente africano. Sebbene ci sia ancora molta strada da fare, in questo campo è stato fatto un importante passo in avanti nel 2002 quando, sotto l’egida dell’Onu, fu sottoscritto il Kimberley Process Scheme, un accordo tra i maggiori Paesi coinvolti nella produzione e nel commercio di diamanti per salvaguardare le condizioni di lavoro dei lavoratori nei luoghi di produzione e preservare il commercio da infiltrazioni di traffici illeciti.
I requisiti che un Paese deve soddisfare per poter partecipare allo schema di certificazione sono numerosi. Innanzitutto il ricavato dalla vendita non deve essere destinato a finanziare gruppi di ribelli o altre organizzazioni che mirano a rovesciare il governo riconosciuto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite; in secondo luogo ogni diamante esportato deve essere accompagnato da un certificato che provi il rispetto dello schema del Kimberley Process; infine nessun diamante può essere importato da, o esportato verso, un Paese non membro del Kimberley Process.
Oggi il mercato mondiale dei diamanti vale 75 miliardi di dollari; all’interno di questa cifra 16,5 miliardi finiscono nelle casse delle società proprietarie delle miniere e altri 2,7 miliardi vanno ai tagliatori. La produzione annuale mondiale è di circa 100 milioni di carati, di cui solo il 50% può essere usato in gioielleria.