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 2016  ottobre 24 Lunedì calendario

«Oggi ci vorrebbe più repressione». Intervista a James Ellroy

Se gli chiedete per chi vota, James Ellroy vi manda al diavolo in tono convincente anche se c’è un oceano di mezzo. La sua voce roca, perfetta per chi si definisce il «cane rabbioso» della letteratura americana, sembra mordere la cornetta. Per rispondere, sguinzaglia il suo eroe, il poliziotto duro di Los Angeles, Whiskey Bill Parker (1905-1966): «Lui voterebbe Trump, senza dubbi – dice Ellroy —. Parker era un reazionario, bigotto, donnaiolo oltre che ubriacone; animato da una violenta passione per l’applicazione della legge e un rispetto riluttante per le libertà civili. Oggi avremmo bisogno di riportare in auge i suoi metodi». Quali? «La repressione. Garantisce maggiore sicurezza alla maggioranza dei cittadini che rispettano la legge».
Parker è il nume tutelare di Un anno al vetriolo, libro fotografico edito da Contrasto che racconta i mesi del ‘53 in cui la città fece il pieno di suicidi e omicidi. Gli scatti sono del Dipartimento di polizia di Los Angeles, scelti con Glynn Martin, ex direttore del Museo e amico fraterno di Ellroy (che ora vive a Denver). Lo scrittore commenta gli scatti, conducendo il lettore al cuore nero della sua Los Angeles, quella che ha ispirato i demoni dei suoi romanzi più celebri.
Da cosa è nata l’ispirazione del libro?
«Bistecche, crimini e cani. Quando vado a trovare Glynn a Los Angeles giriamo in macchina per la città, ci mangiamo grandi bistecche e parliamo di suicidi, delitti, cerchiamo storie: ora siamo sulle tracce di un assassinio del 1963. Durante le feste, di solito a Natale, vado a casa di Glynn, sto con i suoi, gioco con il cane, Paw, un labrador. Ora non c’è più, ne ha uno nuovo, deve presentarmelo, si chiama Ellwood (omaggio a uno dei Blues brothers, ndr ), anche se il nome somiglia a Ellroy. La madre di Glynn, che è una mia fan, lo chiama Ellroy».
È cambiato il crimine da allora a oggi?
«Non seguo la cronaca oggi, non ho Internet. Sì, Los Angeles è più incasinata e sovra-affollata di prima, un inferno. Ma non diamo la colpa ai piani regolatori, a moventi razziali, sociali. Resto convinto che il crimine sia la resa morale dell’individuo e va soppresso, represso ovunque: senza generalizzare, però, sempre caso per caso».
Qual è il suo scatto preferito del libro?
«La foto della stazione di benzina a Foothill Boulevard: c’è un corpo a terra, ci sono i ragazzi in uniforme, un detective sullo sfondo che si da un gran da fare e il sospettato nella macchina della polizia. I quattro elementi che costituiscono un grande crimine, se ne togli uno non è più la stessa storia. Il litigio era nato per motivi etnici, uno era crucco l’altro scozzese, e poi è degenerato in omicidio, indotto dall’alcol. La foto è perfetta sul piano narrativo, e non c’è nulla di artefatto come invece fanno altri».
A chi si riferisce?
«A Weegee, un americano di origini ucraine, Arthur Fellig (1899-1968, ndr ). Provava ad arrivare sulla scena del crimine prima della polizia per posizionare i corpi per la foto. Quella è cattiva letteratura, invece le foto del dipartimento di polizia di L.A. sono oneste, il loro scopo è evidenziare le prove, hanno persino una certa delicatezza, rispetto alla brutalità del soggetto».
Quali immagini criminali la turbano?
«Non sopporto le immagini che presentano la violenza in maniera cool. Non mi piace il tono di certi film dove si glorificano gli spacciatori, la povertà, la violenza. Io c’ho vissuto, nello squallore, e da spettatore ne sopporto solo una certa quantità: non mi voglio riempire gli occhi di squallore. Voglio eleganza. Ma è chiaro che molti, registi e non solo, pensano che lo squallore e l’ambiguità siano cool. No. A me piacciono le storie in cui sai chi sono i cattivi e i buoni. Nei miei libri lo sai, anche se ci sono persone sfaccettate ed estreme come il grande William Parker».
In «Assassini nati» Oliver Stone ha messo in scena i cortocircuiti tra violenza e media. L’ha visto?
«Non è un buon film, sono uscito mentre lo guardavo».