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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Un giardino a regola d’arte

Le dalie rosso fuoco fioriscono fino a ottobre, quando sbocciano aster e crisantemi. E ancora gerani e girasoli. «Non è la profusione della primavera. Ma in autunno la bellezza di questo giardino diventa più complessa, profonda. È la ricchezza che si cattura nelle rughe del volto di un anziano». James Priest, paesaggista, parla come un poeta. Perché il suo giardino, quello del pittore Claude Monet, padre dell’Impressionismo, è emotivo e misterioso, eccessivo (straborda di fiori e colori) e irrazionale, imperfetto e umano.
Monet sbarcò qui nel 1883 con Alice Hoschedé, la seconda moglie, i suoi due figli e quelli di lei, in questa casa rosa a Giverny, minuscolo villaggio della Normandia, a una cinquantina di chilometri a nord di Parigi. Aveva già 43 anni e alle spalle un’esistenza afflitta costantemente dalle difficoltà finanziarie. «Agli inizi affittava e con il giardino non poteva fare quello che gli pareva – ricorda Priest -. E poi era squattrinato. Pensava a coltivare frutta e verdura: per mangiare». Tutto, però, cambiò d’un tratto. Le quotazioni delle sue tele si impennarono, a partire dagli Stati Uniti. Monet acquistò la proprietà sette anni dopo il suo arrivo. E si mise a tagliare meli e pruni per seminare arbusti e fiori variopinti.
Gli servivano come “modelli” per dipingere. Non solo. «Con il tempo, senza alcuna preparazione iniziale, divenne un giardiniere provetto. Nella casa ci sono vari libri sul tema, che lui consultava. Ma soprattutto praticava. E si faceva consigliare da esperti e vivaisti». Di tutto il mondo: vedi l’amico Kojiro Matsukata, che dal Giappone gli inviava le peonie arbustive, ancora visibili nel giardino di Giverny (ma bisogna venire in primavera, per vederle fiorite). Facilmente collerico, succube di depressioni improvvise, dopo fugaci entusiasmi, Monet tra i fiori si rasserenava. Nel 1901 Arsène Alexandre, critico d’arte, scriveva sul Figaro: «L’uomo che a Parigi sembra laconico e freddo, qui è completamente diverso: gentile, sereno, entusiasta. Quando un motivo lo porta nei territori dei boulevards, ha un sorriso che prende una piega ironica o sarcastica. Nel suo giardino, emana benevolenza. Per mesi e mesi, l’artista si dimentica dell’esistenza di Parigi: gladioli e dalie lo sostengono con la loro raffinatezza».
Monet morì a Giverny nel 1926, dopo anni e anni di pittura e giardinaggio. Cominciò con un ettaro, davanti alla casa rosa, il “Clos normand” in lieve pendenza, verso quelli che un tempo erano i binari della ferrovia e oggi una strada. Poi acquistò un altro ettaro subito dietro e si incaponì: deviò un ruscello per creare uno stagno e il suo giardino acquatico. Non fu facile: le autorità locali si opponevano. La gente del posto diffidava di quelle piante esotiche. Ma Monet alla fine la spuntò. E oggi a Giverny dovrebbero ringraziarlo, perché vengono da tutto il mondo, da aprile fino agli inizi di novembre, ad ammirare le ninfee del pittore. Lui insisteva con gli amici, perché lo accompagnassero per scrutarle mentre si chiudevano al tramonto. Si riforniva da Latour-Marliac, che ancora oggi come produttore di ninfee è un riferimento.
Dopo la morte di Monet, il giardino cadde nell’oblio. È stato ripristinato e riaperto nel 1980 da Gilbert Vahé, grande paesaggista, sostituito nel 2011 da Priest. Cinquantotto anni, originario di Liverpool ma da anni in Francia, è il capo giardiniere ideale per un “oggetto” ibrido. «Il Clos normand è squadrato, con i sentieri perpendicolari: una struttura geometrica da giardino alla francese – sottolinea James -. Ma il contenuto non appartiene a quella tradizione: con tutti i fiori ravvicinati e i nasturzi, amatissimi dal pittore, che sfuggono da ogni parte, anche sui viottoli, la natura sembra riprendere il sopravvento sulla logica. Da quel punto di vista appare più all’inglese». Soprattutto non va intellettualizzato, «perché è un giardino d’artista: è atmosfera, spirito, sentimento». «Il mio obiettivo è recuperare il più possibile quello che fu il giardino di Monet». Priest va a caccia delle incongruenze aggiunte nel tempo. Studia le foto dell’epoca, i suoi dipinti, «anche se poi si tratta di immagini puntuali: in realtà ha avuto una sua evoluzione durante la vita dell’artista. Come cambia da una stagione all’altra».
James si è messo addirittura a dipingere nel “suo” giardino. “Non mi prendo per Monet, ovviamente. Ma mi aiuta a capirlo meglio. Qui bisogna piantare i fiori come lui dipingeva, a colpi di pennello». Al pittore piacevano i colori forti e brillanti (e associava quelli prossimi od opposti nello spettro solare). Ma anche lì bisogna navigare tra i sensi e la ragione, la fantasia e la realtà, perché «Monet soffrì di cataratta. La sua percezione dei colori si deformò: li distingueva come infiammati, più vivaci del reale. Il verde diventava viola. Lui lo sapeva bene, ma li ritraeva come li vedeva, di getto. Poi, su insistenza dell’amico Georges Clemenceau, lo statista, si operò. E i colori ridivennero autentici nelle tele». Fuori da ogni schema è pure il giardino acquatico, «influenzato dalle stampe nipponiche che Monet collezionava. Ma non visitò mai il Giappone. Piantò salici piangenti e bambù, ma non seguì uno schema preciso». Un consiglio finale dal nostro James: «Fate come per la pittura impressionista. Prima ammirate il giardino da lontano. Poi metteteci la testa dentro. Sui fiori, sugli arbusti. Passate ai dettagli, sentite gli odori. Vivetelo questo giardino».