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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

Arrivano i giornalisti grafici
. «La Stampa» si rifà il look

Quando a fine maggio del 1989 nacque l’ufficio grafico a La Stampa l’accoglienza da parte della redazione non fu delle più calorose.


Il direttore Gaetano Scardocchia aveva finito di approvare le ultimissime modifiche al progetto del nuovo giornale, che avrebbe avuto tre dorsi – news, cultura&spettacoli e cronaca di Torino – un po’ come negli Stati Uniti il New York Times, sette colonne anziché 9 e una serie di altre caratteristiche che lo rendevano più moderno e all’avanguardia rispetto agli altri quotidiani italiani. 

Una squadra affiatata

Allora, nella redazione di via Marenco, non esisteva un servizio grafico. C’erano tutti gli altri desk, dal politico agli esteri ai supplementi, ma i grafici non erano presenti. Così, quando Piergiorgio Maoloni, che firmava il progetto in questione, fece notare che erano necessari giornalisti grafici, il direttore chiamò Angelo Rinaldi che veniva dal settimanale Il Sabato e la sottoscritta, che veniva dall’Espresso, conferendoci l’onore (e l’onere) di far marciare il progetto e di fargli vedere la luce in edicola. Fortunatamente ci affiancarono tre bravi poligrafici che la sapevano lunga sulla redazione de La Stampa e sul lavoro che ci aspettava: Giorgio Debernardi, Mario Gho e Amato Silano (detto Sili da Maoloni e subito da tutti gli altri). 

Nel giro di poco tempo eravamo una squadra affiatata. E per fortuna perché ci trovammo ad affrontare un lavoro immane con tempi molto stretti. Oltre a noi venne chiamato a lavorare Enrico Pandiani (che molti conoscono come bravo scrittore di gialli) che allora era tra i pochi a saper usare un computer per disegnare. Per primi pubblicammo la cartina del tempo disegnata. Nel giro di due giorni l’avevano copiata Repubblica e Corriere.

Lavoravamo una quantità infinita di ore, la giornata non finiva mai: ricordo che una volta la segretaria del direttore, la signora Cortese (di nome e di fatto dicevamo), alla quale evidentemente facevo pena, si offrì di andare a fare la spesa al posto mio: accettai e finalmente potei fare una colazione, un pranzo e una cena a casa. 


Si usciva la sera dopo mezzanotte, Torino era molto più buia e silenziosa rispetto ad ora, era tutto chiuso e conoscevamo solo un paio di posti che ci davano ancora da mangiare: la pizzeria Parigi e Marechiaro. La prima aspettava le hostess e i piloti dell’Alitalia che arrivavano a fine giornata, l’altra è ancora lì, dietro piazza Solferino.

Quelli che invece poco ci sopportavano erano la maggior parte dei colleghi giornalisti: pensavano fossimo solo dei rompiscatole che volevano mettere il becco in cose che non sapevano e, ohibò, cambiare il corso delle cose in un giornale che marciava da oltre 100 anni senza aver mai avuto bisogno di un grafico. Fortunatamente, avevamo l’appoggio incondizionato del direttore e del vicedirettore Pierangelo Coscia, che era in grado di «procurare una bottiglia di champagne ghiacciato nel deserto», così, a poco a poco, tutti capirono che lavorare con noi non faceva altro che esaltare il loro lavoro, offrendo al lettore una nuova chiave di lettura: non solo testo, ma anche una nuova considerazione delle fotografie, l’infografica, la creazione di elementi di testo che servivano a tirare fuori frasi o passaggi importanti. In generale un nuovo ordine nel restituire gerarchia alle notizie.
Insomma nel giro di qualche mese, anche il più restio dei colleghi (ricordo quando anche Mario Varca, il capo dei famosi Esteri de La Stampa, sempre un po’ scettico, capitolò) si sedeva volentieri ai nostri grandi tavoli «da grafici» per mettere giù un po’ di idee insieme e disegnare le pagine. Qualche tempo dopo arrivarono da Stampa sera (che chiudeva) Marina Carpini e Roberto Travan. Il servizio grafico cresceva e nel giro di poco si unì al gruppo anche Mauro Barbero, mentre negli anni 2000 arrivò Gabriella Carluccio.

Ecco, la costruzione delle pagine era più complessa rispetto ad oggi, perché prima disegnavamo un menabò (modello di una pagina), in scala al 50%, indicando tutto, dal numero delle righe al tipo di titolo: cercavamo la foto e in alcuni casi la fotocopiavamo riducendola con la fotocopiatrice (Sili era un super esperto) e incollandola in modo tale da avere una perfetta simulazione della pagina prima di mandarla in produzione. Poi le pagine venivano consegnate in tipografia e se ne perdevano per un po’ le tracce. Ricomparivano quando venivano «caricate» e si vedevano sul computer. Il tempo passava e i grafici diventavano sempre di più un importante punto di riferimento per tutti i colleghi.


All’avanguardia in Italia
Quel giornale però era troppo rivoluzionario per Torino e, in generale, per l’Italia. La formula che divideva le hard news dalle soft news, che dava nel terzo fascicolo tutte le notizie di cronaca cittadina e provinciale (non solo a Torino, ma Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria) e permetteva di leggere in giornale in tempi e modi diversi, non incontrò il favore del pubblico.

La rotativa, fiore all’occhiello dell’a.d. Paolo Paloschi, era una macchina potente e delicata in grado di stampare 70 mila copie l’ora. Ricordo che la venivano a vedere da altri Paesi: in Europa nessun giornale aveva una rotativa così. Ma proprio la sua complessità creò dei problemi: la taratura della carta era operazione complessa, così come la fascicolazione, e spessissimo c’erano degli strappi.

Fu frustrante ammettere che, pur avendo avuto la giusta visione, che era stata fortemente voluta dall’avvocato Giovanni Agnelli, i tempi non erano ancora maturi per un prodotto così moderno. Il pubblico non lo amava. Passò un anno, Paolo Mieli assunse la direzione, Scardocchia tornò negli Stati Uniti e nel giro di 10 giorni il giornale venne di nuovo accorpato. Niente più fascicoli, niente più strappi della carta in rotativa.

In Europa e, in generale all’estero, i quotidiani con i dorsi, specialmente la domenica, sono la norma, qui no. Però quel tipo di esperienza spianò la strada a tutte le trasformazioni che seguirono e che, speriamo, seguiranno nei prossimi 150 anni per La Stampa.