la Repubblica, 23 ottobre 2016
Franz Di Cioccio
ROMA C’È LA CANZONE D’AUTORE CHE SI RINNOVA, c’è la dance italiana che conquista il mondo, c’è il mainstream pop che domina le classifiche nazionali. E poi c’è il rock, con tante giovani band piene di idee e di entusiasmo. E con qualche “vecchia gloria” che a dispetto dell’età è ancora in grado di fare quello che molti giovani sognano soltanto di poter fare. È quello che sta accadendo alla Premiata Forneria Marconi: quarantacinque anni di storia sulle spalle e, non sembri un’ovvietà, non dimostrarli. Così come non dimostra i suoi settanta Franz Di Cioccio, batterista, cantante, anima e cuore della band dai suoi esordi a oggi. Soprattutto quando lo si vede in scena con la Pfm travolgere tutti con la sua energia, il suo entusiasmo, in definitiva la sua bravura. «L’età? Ma quella non conta, conta solo la musica», ci dice, e ha ragione, soprattutto se è quella di una band che ha scritto pagine importanti della storia della musica italiana, che ha collaborato con Lucio Battisti e con Fabrizio De André, che ha conquistato le classifiche non solo in Italia ma anche in Inghilterra e negli Stati Uniti, e realizzato album leggendari come Per un amico o L’isola di niente. Oggi la Pfm sta vivendo una seconda gioventù, con una nuova formazione, e soprattutto un pubblico ai concerti in cui i giovani sono più numerosi degli adulti. La forza musicale è tutta concentrata nel live: «Ai nostri concerti il pubblico si rinnova sempre», ci spiega Di Cioccio, «ci sono i fan storici, quelli che amano la nostra musica e non hanno mai smesso, ma anche quelli che ci hanno scoperti con i dischi del papà e quelli che hanno visto un post su Facebook. Devo dire che però anche noi ci rinnoviamo: non facciamo mai lo stesso concerto. Siamo tornati in Italia da pochi giorni dopo un tour europeo, era tanto che non ne facevamo uno. Abbiamo suonato in club veramente belli. L’anno scorso eravamo stati negli Usa e in Canada, e devo dire che anche lì era andata molto bene. Direi che facciamo un bell’effetto. Possiamo proporre ogni sera cose differenti, e questo rende ogni show interessante anche per chi ci ha già visti. Fare live in questo modo significa che il calendario è sempre aperto: prepari uno spettacolo, la gente viene, comincia il passaparola, e poi le cose vanno avanti. Insomma, per capirci: non siamo come quelle vecchie band che fanno un tour ogni due o tre anni e poi è finita lì».
Di Cioccio sta lavorando con grande passione – c’è da dirlo? – alla riedizione degli album della Pfm, con un primo cofanetto uscito nel 2012 e che raccoglieva i primi due album oltre molte rarità e inediti, e un nuovo cofanetto, Marconi Bakery, con gli album del 1973-1974, Photos of Ghosts, L’isola di niente e The World Became the World, dai quali risalta ancora la straordinaria originalità della band: «I dischi erano diversi l’uno dall’altro, e riascoltandoli ora si vede che c’era un percorso preciso che avevamo intrapreso e che seguiamo ancora. Eravamo contemporanei, e forse alle volte eravamo persino in anticipo, ma mai fuori tempo, eravamo al centro di quello che accadeva all’epoca. E così alcuni dei nostri album sono rimasti freschi, altri si sono addirittura rivalutati, altri ancora si sente che rispecchiano gli anni in cui sono nati, ma devo dire che sono invecchiati bene. Avevamo e abbiamo ancora un approccio che è internazionale e italiano, perché in realtà non ci siamo mai neppure posti il problema se dovessimo restare italiani o lasciarci contagiare da quello che ascoltavamo: mettevamo e mettiamo insieme i nostri ascolti con la nostra naturale vena mediterranea. E questo ci ha resi diversi dagli altri. Eravamo rock ma facevamo anche canzoni, eravamo una band progressive ma entravamo in altri ambiti, ci siamo avventurati in ogni campo musicale. Diciamo pure che ci è sempre piaciuto giocare con la musica senza badare agli schemi e alle etichette».
Di Cioccio è sempre stato al centro della Premiata Forneria Marconi, con la sua vivacità, la creatività, la voglia di non stare mai fermo, fisicamente e culturalmente: «Ho guidato la band da dietro, seduto alla batteria. Poi nelle scelte: la maggior parte dei progetti, delle produzioni, delle strategie, dei tour, delle copertine, parte tutto da me. Forse perché sono abruzzese, e perché sono un entusiasta di natura, difficile vedermi triste. E poi sono un randagio musicale, e questo significa che mi piace il rock, il rap, il funky, l’heavy metal, il jazz, mi piace la canzone. La musica è emozionante, è un dono, una delle cose belle della vita. Quelli che hanno lasciato la band lo hanno fatto perché avevano finito la benzina, avevano bisogno di altro. Ma per me la Pfm è tutto. A patto, ovvio, che si suoni bene». Già, e quali sono le qualità di un buon musicista? «Innanzitutto deve saper ascoltare gli altri. Suonare non è solamente un fatto tuo personale, non puoi fare tutto da solo. Il musicista bravo è quello che non ascolta se stesso quando suona, tanto lo sa quello che sta facendo, ma è quello che ascolta gli altri, solo così tutto si incastra. Ancora oggi noi ci ascoltiamo, facciamo prove estenuanti perché tutto sia messo perfettamente a fuoco. Del resto la nostra leggenda è questo che vuole. Guardavo dei filmati tempo fa, noi che suoniamo all’Old Grey Whistle Test, oppure alla Bbc a Londra: so che non dovrei dirlo, ma è pazzesco come facevamo tutto davvero bene. E oggi uguale. Io metto molta cura in quello che faccio, sono sempre stato così, perché credo che le storie belle vadano mantenute, curate, coccolate. Prendi questo cofanetto: dentro ci ho messo tutta la passione che ho perché venisse fuori un prodotto storicamente corretto».
La storia del gruppo è legata a doppio filo alla storia di Franz, è lui che ha dato il via ai Quelli, in era beat, poi ai Krel e quindi alla Pfm. Le storie su come nascono le band sono tutte diverse, e tutte leggendarie, dall’incontro dei Doors sulla spiaggia di Los Angeles a quello degli Stones nella stazione della metropolitana. E la Pfm? «Volevo semplicemente fare una band e avevo un’agendina piena di nomi. Ho iniziato con Franco Mussida e poi uno alla volta sono arrivati tutti gli altri, Flavio Premoli per esempio. Fino all’incontro storico, quello con Mauro Pagani, proprio sulla spiaggia, quella di Spotorno. Ma anche l’arrivo di Patrick Dijvas è stato bello: stavamo facendo una session, io, Demetrio Stratos, Alberto Radius, Paolo Tofani, Mauro Pagani. Arriva Dijvas e Demetrio lo chiama in scena, non aveva lo strumento e io l’accompagno a prendere un basso. Mi stava sul cazzo, non mi piaceva, ma appena si mette a suonare capisco che aveva “quella cosa” che mancava alla Pfm. Cominciammo così a lavorare tutti insieme, il mio sogno iniziava a prendere forma: il sogno di una band fantastica, che è poi il sogno che cerco ancora oggi di tenere vivo. Far ripartire la Pfm è stata una grande idea, per la quale mi ha aiutato moltissimo mia moglie Iaia. Nessuno ci credeva. E invece. Per prima cosa abbiamo organizzato un tour in Giappone, tutto via internet. Perché è vero che in Rete ci sono già i video del nostro passato, ma noi volevamo che tutti ci vedessero oggi. È stata la svolta: tutti hanno potuto vedere quanto eravamo vitali e creativi, anche più bravi di come eravamo da giovani. E così, non appena tornati dal Giappone, la Pfm è ripartita alla grande». Ovviamente dopo la separazione con Franco Mussida oggi c’è una nuova formazione: «Sì, certo, ma formazione nuova vuole anche dire musica nuova, un modo diverso di suonare anche le cose più vecchie. Entrare nella band dopo Mussida non era certo una cosa facile. Ma noi sapevamo che non si sostituisce un elemento con un altro che gli assomiglia. Ti serve invece uno che ti fa fare uno scatto in avanti, ed è così che è successo con il nostro nuovo chitarrista, Marco Sfogli: tu pensa, un napoletano nel cuore della Pfm, un ragazzo che viene dal nuovo prog...». In scena non c’è la Pfm 2.0, ma la Pfm e basta.