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 2016  ottobre 23 Domenica calendario

1992, Tangentopoli investe l’Italia. Gli Stati Uniti temono un golpe

L’Italia rischia un golpe? È la sera del 12 marzo 1993, ore 18.49. L’aria di Roma è ancora fresca, la bufera giudiziaria infuria. Dall’ambasciata americana, l’incaricato d’affari Daniel Serwer invia al Dipartimento di Stato l’ennesimo rapporto sulla «rivoluzione» (la chiama così) di Tangentopoli. Tempi duri: da Washington premono per capire che cosa diavolo stia succedendo in Italia. Nelle ultime settimane si sono dimessi i segretari Bettino Craxi e Giorgio La Malfa, il presidente Scalfaro s’è rifiutato di firmare l’ennesimo decreto salvaladri, i manager Fiat sono finiti in manette, il finanziere Pacini Battaglia s’è costituito per svelare i fondi neri Eni… Un intero mondo sta crollando, scrive Serwer, e non manca «any worry about a possible coup»: qualche preoccupazione per un possibile colpo di Stato. Ma di chi? Il diplomatico fa un giro d’opinioni e riferisce le parole di vari leader italiani. C’è il segretario pds Achille Occhetto che esclude un simile rischio: «L’Italia non ha una tradizione di golpe». E Piero Fassino che rassicura di persona l’ufficio politico dell’ambasciata Usa: «Le forze armate italiane sono di leva e riluttanti a farsi coinvolgere nella politica interna». Gli americani però non si fidano, perché «il leader leghista Umberto Bossi in private conversazioni ha espresso ripetutamente preoccupazione per tentativi di golpe o per l’uso di forze paramilitari che ostacolino il cambiamento». Anche in ambienti del Pds, osserva il rapporto, si dubita che «i servizi d’intelligence o i carabinieri rimangano spettatori neutrali», tanto che Massimo D’Alema è stato esplicito nell’insinuare «che i servizi segreti siano coinvolti nelle rivelazioni sui collegamenti fra il Pds e un conto svizzero utilizzato per le tangenti».
Insomma, c’è da temere? La rivoluzione italiana è in corso e «i venti sono potenti», dice l’ambasciatore, ma oltreoceano stiano tranquilli: «Roma oggi non è la Parigi del 1789, la Pietroburgo del 1917 e nemmeno la Boston del 1775, il cambiamento non si raggiungerà con armi e ghigliottina». E questo – il diplomatico spiega con un filo d’ironia le immagini tv dei giuramenti di Pontida – «nonostante alcune persone si siano travestite da guerrieri medievali e abbiano contestato le tasse inique».
Sono 42 pagine «confidential». Sette cablo, inviati fra il 15 settembre 1992 e il 27 luglio 1993. Report inediti e declassificati di cui il «Corriere della Sera» è entrato in possesso. Raccontano come l’ambasciatore americano Peter Secchia e il reggente Serwer valutassero Mani pulite e la fine della Prima Repubblica. Con chi parlavano, di chi si fidavano, che cosa prevedevano. Con qualche sorprendente giudizio: sull’operato del Quirinale, per esempio, definito «insolito» quando Scalfaro suggerisce al premier Giuliano Amato di stare alla larga dalle direzioni d’un Psi ormai morente (un’evidente reazione alle parole di Craxi, scrivono da via Veneto, dopo che il segretario socialista ha chiesto una commissione parlamentare d’inchiesta sul finanziamento di tutti i partiti...). Gli americani hanno le idee chiare: la strategia di Bettino è «disperata», anche se «le possibilità che finisca in prigione sono remote». I report dell’ambasciata non nascondono per il leader socialista un’antipatia che dura fin dai tempi del blitz di Sigonella ed è evidente che Washington, adesso, preferisca puntare sul Pds di Occhetto, considerato nei cablo «personalmente ostile» a Craxi e un interlocutore privilegiato degli americani: a Bettino, pur riconoscendo d’aver tenuto il Pci fuori dal governo fin dagli anni Settanta, si rimprovera proprio d’avere poi evitato di proposito l’unità delle sinistre, pur di non perdere il suo ruolo d’«indispensabile alleato della Dc».
«Queste carte invertono la vulgata di un’America che temeva gli eredi del Pci – commenta Andrea Spiri, storico e ricercatore che ha spulciato gli archivi di Washington —. Tangentopoli aveva cambiato tutto rispetto al 1989, solo quattro anni prima, quando la storica visita del comunista Occhetto negli Usa era stata accolta ancora con grande diffidenza».
A un quarto di secolo da Mani pulite, ci si chiede sempre quale fu il ruolo degli americani. Il socialista Formica lo dà per certo. L’ambasciatore Reginald Bartholomew, succeduto a Secchia in via Veneto, disse una volta che il suo predecessore era molto vicino al Pool. E anche il console a Milano, Peter Semler, ammise una stretta confidenza con Di Pietro. Dai nuovi report declassificati, affiora di sicuro una chiara simpatia: «Le intenzioni dei magistrati sono nobili – si legge —, seguono solo la via giudiziaria, i martelletti delle loro decisioni sono risultati efficaci come pistole (…). Hanno intrapreso un processo di cambiamento che non possono controllare o guidare completamente (…), ma come giudici la loro responsabilità è d’assicurarsi che giustizia sia fatta, non d’indicare linee politiche per stabilire quando se ne ha abbastanza. Quello è un lavoro che spetta ad altri».
A chi? L’Amico Americano qui ha meno certezze. Ed entrando nelle questioni interne del Psi, il più in crisi del Pentapartito, descrivendo nei dettagli gli ultimi congressi «senza garofani e in sale modeste», punta senza troppa convinzione su Claudio Martelli bell’e «pronto a mollare Craxi», sponsorizzando un suo viaggio negli Usa. L’ambasciata è un’antenna e capta dove può: fonti dirette e privilegiate, convocate spesso a collaborare nella raccolta d’informazioni e citate nei report, sono i socialisti Gino Giugni («ci dice che Craxi è pronto a tutto per salvarsi»), Valdo Spini e Luca Josi, assieme a un non meglio specificato «portavoce del Pds».
Interessa la politica italiana, certo, ma soprattutto sapere se la portaerei Italia rischi la deriva. Il timore di via Veneto è che «i continui scossoni possano avere un impatto negativo» sulle relazioni bilaterali con gli Usa: «Abbiamo avuto la dimostrazione nella saga di Ustica che politici fra loro rivali, come i ministri Martelli e Andò, possono lustrarsi a nostre spese», mentre «in questa fase di cambiamento dovremo stare molto attenti a evitare d’essere trascinati nei maneggi politici italiani».
Intromettersi è sempre rischioso, come hanno insegnato gli endorsement di Obama e del suo ambasciatore sul referendum: già 25 anni fa, s’apprende, a Washington erano convinti che «senza una riforma elettorale che dia all’Italia governi più forti (…), si fa difficile la leggendaria arte italiana d’arrangiarsi». Gli americani spulciavano le proposte in cantiere, nei cablo s’accenna anche a Mattarella, ma alla fine si trovavano a citare il Gattopardo: per tutto il dopoguerra, scrivevano, «l’Italia ha dato un nuovo senso all’adagio “tutto cambia perché tutto resti uguale”…». E se questo «cambiamento politico senza precedenti» sarà pacifico e l’Italia resterà comunque ancorata all’Occidente, sempre meglio stare attenti: nessuna rivoluzione ha un esito prevedibile. La chiusa è truce: «Il vecchio sistema politico muore, il sangue versato continuerà a scorrere ancora per un po’ e altre teste rotoleranno. Ci vorrà una buona dose di competenza e di fortuna, per venirne fuori».