ItaliaOggi, 21 ottobre 2016
A noi Grillo e agli Usa Trump
Il List quotidiano di Mario Sechi, che appare anche su ItaliaOggi, oltre che su Il Foglio, è spesso pieno di spunti di politica estera assai sapidi e il suo blog, mariosechi.it, ospita spesso analisi geopolitiche raffinatissime. Per questo parlare con l’ex-direttore de Il Tempo di presidenziali americane, il giorno dopo il terzo confronto tv fra Donald Trump e Hillary Clinton, è interessante. «Situazione davvero drammatica», dice subito al telefono da Roma.
Domanda.
Direttore, allora ha visto. E, da quel che mi dice, mi par di capire, che nell’uno fronte e nell’altro, in passato, si sia visto di peggio.
Risposta. Quello che le ho detto prima potrebbe apparire una frase snob, da club della caccia, del tipo «come sono scarsi questi candidati, signora mia», e invece non lo è. Putroppo.
D. Cominciamo a motivarla, allora.
R. E allora le dico che sono entrambi, Trump e Clinton, perfettamente espressione dell’America di Barak Obama.
D. In che senso?
R. La democratica è esattamente l’establishment che non comunica più con il popolo, che ha perso contatto. Lui, di converso, è il ranch americano. Quello fatto di gente arabbiatissima, che non può più della Quinta strada o della Grand Centrale Station di New York, di San Francisco, della Silicon Valley e dei magnati che girano coi panfili da 100 metri. È paradossale che sia lui, Trump, a incarnarla, ma è così. Il New York Times e il resto della stampa liberal rappresentano i suoi elettori come sdendati, fumatore, obesi e lobotomizzati dai reality show, ma non raccontano una cosa.
D. Ossia?
R. Che anche il Partito democratico ha avuto il suo Trump in Bernie Sanders, il quale è, allo stesso modo ma specularmente, statalista, contro Wall Street, per il protezionismo. E non raccontano, quei giornali, come sia Trump sia Clinton, che ha penato non poco per piegare appunto Sanders alle primarie, siano figli della crisi della nazione americano.
D. Perché parla di nazione?
R. Uso questo termine non a caso, perché c’è un problema evidente di identità americana. Nel 2004, Samuel Hungtinton...
D. Quello de Lo scontro di civiltà.
R. Esatto, libro assai citato e poco letto. Hungtinton scrisse Who are we? Si chiedeva chi fossero diventati gli americani. Coglieva profonde spaccature che si percepivano già 12 anni fa. Si chiedeva cosa avrebbe significato una prevalenza di latinos, non solo dal punto di vista demografico, ma culturale. Si interrogava su quanto potesse durare il ceppo dei padri fondatori. E se ci fosse ancora. Invece, né repubblicani né democratici si ponevano quelle domande, perché sintonizzati sull’establishment.
D. Ossia la politica s’è persa di vista la mutazione profonda del Paese?
R. Guardi. Obama è stato forse una prima rottura col discorso classico dell’establishment. Intendo l’Obama prima maniera, che parlava di “change”, ossia cambiamento, di “America uguale”. Quell’Obama ricorda molto il Sanders attuale, di cui Trump è l’estremizzazione bianca, speculare e contraria. L’establishment, nessuno lo ricorda più, voleva un confronto fra Hillary e Jeb Bush.
D. È vero, ce ne siamo scordati.
R. L’establishment voleva i due clan a confronto, i bushistas e i clintonistas, il solito gioco di sempre, non avendo capito che, in questi anni, il Paese era cambiato, l’elettorato si era spezzato.
D. Cambiato perché?
R. Perché come dimostra un recente studio McKinsey sulla disponibilità di reddito nei Paesi avanzati, gli Stati Uniti sono il secondo Paese in cui le persone hanno subito le maggiori decurtazioni di reddito negli ultimi anni. Dopo l’Italia ovviamente. Anzi, le dico la classifica: Italia, Usa, Gran Bretagna, Olanda e Francia. Li legga elettoralmente.
D. Sono il trionfo dei protezionismi e dei populismi.
R. Esatto. Noi abbiamo avuto Beppe Grillo, gli Usa hanno Trump, il Regno Unito la Brexit, la Francia il lepenismo e in Olanda stanno chiedendo il referendum per uscire dall’Unione europea.
D. L’establishment si giocava la Casa Bianca senza tener conto degli Americani impoveriti.
R. Non comprendeva o sottovalutava la rottura in atto. Sulla quale anche Obama, specialmente nel secondo mandato, ha fatto molta retorica e pochi fatti. Oggi, negli States, sono tutti contro tutti: bianchi contro neri, poliziotti contro neri, messicani contro bianchi e così via. Siamo tornati agli anni ’70. E poi sa: quando si spara alla polizia, in un Paese, è segno che le cose vanno davvero male.
D. Dunque Sanders e Trump avrebbero rappresentato l’America vera e problematica attuale. Ma ora c’è Clinton contro il miliardario.
R. Mi sta chiedendo chi vince? No lo so, sinceramente. Credo che queste elezioni metteranno alla prova anche i sondaggi. Certo l’ex-first lady è in vantaggio, ma nessuno pensi di far sparire il trumpismo se Donald perde. È un po’ come quelli che si illudevano di veder sparire il berlusconismo da noi, solo perché il Cavaliere declinava. Trump, come Silvio Berlusconi, nasce da un dato culturale e sociale preesistente.
D. Il trumpismo non sparirà, dice lei. Per questo la frase sull’eventuale mancato riconoscimento della sconfitta, pronunciata nel confronto, preoccupa. Allo scontro sociale ed etnico, si aggiungerà quello politico permanente?
R. Quella è una frase provocatoria, ma siamo ormai da tempo nello scenario della più totale cospirazione. Pensi che da tempo si ritiene che Vladimir Putin voglia far deragliare queste elezioni. È ridicolo immaginarlo.
D. Eppure il presidente Putin è stato assai citato nel duello...
R. Una cosa surreale. Siamo fuori dalla Guerra fredda da un pezzo, è caduto il Muro, è morto pure Ronald Reagan, e il personaggio più presente in un dibattito presidenziale degli Sta-ti Uni-ti. Si rende conto?
D. Che significa?
R. Significa candidati deboli, significa che la politica estera obamiana è stata fragilissima, significa anche la centralità di Putin nel concerto geo-strategico e la sua abilità a giocare a Risiko. Oltre ovviamente alla sua spregiudicatezza.
D. E dire che la Russia i suoi problemi ce li avrebbe.
R. Perbacco: il più grande Paese del mondo per estensione, anche se si tratta di permafrost per una gran parte, e che però non ha abbastanza popolazione. Con seri problemi di reddito. E il problema sarebbe Putin? Non è un caso che Warren Buffett consideri questi due candidati alla stregua di due mattacchioni.
D. Sechi, con Obama l’America aveva di fatto abdicato dal suo ruolo di gendarme del mondo. Che succederà con la Clinton?
R. La Clinton è teoricamente un falco, e l’abbiamo visto nel suo impegno durante la campagna di Libia, quando era segretario di Stato. Cosa farà, dipende da cosa le chiederà l’America. L’altro giorno, Romano Prodi, in una intervista, mi diceva che gli americani non son più risposti a veder rientrare i loro figli avvolti in una bandiera. E io gli credo.
D. Cosa comporterà?
R. Quando lo strumento militare non lo sai più usare, si aprono varchi notevoli per chi ha meno problemi di te con la democrazia. Come Putin appunto o come i cinesi. Io credo che la Clinton avrà problemi con loro nel mondo.
D. E noi europei?
R. Guardi la cifra politica del viaggio di Matteo Renzi negli Usa, aldilà del pranzo con Obama, delle celebrazioni, è questa: ci scaricano la sicurezza del Mediterraneo, ci stanno dicendo che dobbiamo occuparci della Libia, del Nord Africa. E, prima o poi, lo dovremo fare, coi boots on the ground, come si dice.
D. Con gli stivali sul terreno. Del resto siamo già a proteggere la diga di Mosul.
R. In Iraq abbiamo un migliaio di uomini, 450 lassù, a protezione, ma siamo anche in Afghanistan e la missione libica è medico-militare. D’altra parte, oggi riforniamo in volo i bombardieri americani e “illuminiamo” bersagli. In guerra ci siamo già, anche senza premere il grilletto. Non è un caso...
D. Non è un caso?
R. Che in Europa sia ri-decollato il discorso dell’esercito comune. Paradossale nel pieno della crisi dell’euro, non le pare?
D. Infatti. Nemmeno il Ttip, il trattato di libero scambio con gli americani decolla.
R. È sotto scacco, come tutti gli accordi di libero scambio. La Vallonia ha bocciato l’accordo col Canada e oggi il Consiglio europeo discute di questo tema. E il Ttip non lo vogliono i francesi, non lo vuole la Spd tedesca, e neppure un pezzo della nostra opinione italiana.
D. Il mondo si assomiglia.
R. C’è sempre la paura dello straniero: quando c’è la crisi e lo smarrimento aumenta, questo timore si fa fortissimo. Trump vuole fare il muro al confine messicano, e pure gli ungheresi, gli sloveni, gli austriaci ci provano. I francesi sbaraccano Calais, la Germania rivede la sua politica.
D. Anche per le merci è lo stesso lei dice?
R. Certo. Qui lo straniero è la globalizzazione, le liberalizzazioni che facilitano gli scambi, la circolazione delle persone, del lavoro, dei trasporti.
D. Torniamo alla vittoria eventuale della Clinton. In Europa chi se ne dispiacerà?
R. Credo Francia e Germania e non poco, perché la Clinton ha l’idea di rafforzare la Nato a Est, assecondare lo spirito dei Paesi baltici che vedono in Mosca un pericolo. E Berlino con la Russia ha rapporti veri. Il punto è che il vecchio ordine di Westfalia non esiste più e, come dice Hanry Kissinger ne L’ordine del mondo, nessun nuovo format l’ha sostituito. Sa come dice Papa Bergoglio?
D. Quando parla della terza guerra mondiale a pezzi?
R. Esatto. Non so se sarà a pezzi, sicuramente ci sono conflitti regionali importanti. E, chissà, potrebbe esserci anche il terzo conflitto.
D. Certo, sentire il Dipartimento di Stato che fieramente annuncia di aver messo a lavoro cento hacker contro la Russia fa impressione...
R. Infatti. A casa mia, nel 2016, gli attacchi informatici sono atti di guerra. Con un attacco informatico puoi bloccare le transazioni finanziarie di un Paese, come il suo traffico ferroviario, le sue infrastrutture energetiche, le sue centrali nucleari. E si potrebbe continuare.
D. Basta così la prego. Lei dice di non provocare troppo Putin, mi par di capire.
R. Non è saggio. Anche perché, mi scusi, dopo Putin chi viene?
D. Bella domanda.
R. Che nessuno si è mai fatto per Saddam, Gheddafi, Mubarak. Con una differenza rispetto a Iraq, Libia, Egitto, che la Russia ha tante testate nucleari. E, aggiungo, Putin lo conosciamo: non è un campione di democrazia, ma sappiamo chi è. E sappiamo che governa un Paese nelle cui aree asiatiche non mancano i terroristi. E la Cina è là, alle porte. Non uno scherzetto.