La Stampa, 21 ottobre 2016
«Il mio rap non è per i bambini. Con le canzoni voglio far riflettere». Intervista a Emis Killa
A vederlo, con tutti quei tatuaggi, non si direbbe. Ma Emis Killa, al secolo Emiliano Giambelli, è uno alla «vecchia maniera». Uno di quelli che considerano uno schiaffo ricevuto dai genitori più efficace di mille parole. Nonostante il successo i suoi ideali non sono cambiati, così come non è cambiato lui. I ragazzini di oggi lo vedono come un modello, ma è chiaro dal suo ultimo disco, Terza Stagione (dove si parla anche di femminicidio, con toni molto controversi) che il suo non è un rap per bambini.
Il pezzo 3 messaggi in segreteria, dove il rapper veste i panni dello stalker, è finito subito nella bufera. Molte donne, infatti, pensano che «istighi alla violenza». Ma Emis spiega: «È un modo per sensibilizzare la gente su una realtà orribile».
Qual è l’aspetto della popolarità che le piace meno?
«L’essere considerato diverso dagli altri. Se sei famoso sembra che non puoi avere una giornata no».
Lei canta dell’Italian Dream: ma c’è davvero un sogno italiano?
«Sì, esiste tra i bambini. I grandi quando crescono perdono la voglia di spaccare il mondo che hanno da piccoli. Ma i bambini per fortuna fantasticano molto, così come facevo io».
Il sogno dei bambini italiani è ancora quello di fare i calciatori?
«Perché i ragazzini vedono solo il bello del lavoro, ma credo che anche la vita del calciatore non sia facile. Uno come Cristiano Ronaldo deve giocare sempre, anche se non ne ha voglia».
Quando la passione diventa lavoro è facile perdere interesse. Le è mai capitato?
«Sì, ma non ho mai considerato di abbandonare la musica. Però vivo con la pressione in testa, perché mentre prima non avevo niente da perdere, adesso non è così. Ho paura che qualcuno un giorno mi tolga tutto».
I rapper, loro malgrado, in Italia hanno preso il posto delle boy band. Pensa che questo svilisca il genere?
«Sì. Non capisco come i bambini possano ascoltare certe canzoni».
Eppure tanti bambini la ascoltano e vengono ai suoi concerti.
«Le mamme mi dicono che le figlie di 8 anni mi adorano, allora mi chiedo: cosa ci trova una bambina in uno pieno di tatuaggi che dice un sacco di parolacce? Cosa imparerà sua figlia ascoltando un mio pezzo? Comunque questi bambini cresceranno, quindi un giorno avrò un pubblico di adulti».
Pensa che i genitori di oggi non siano più quelli di una volta?
«Sì. Con le dovute misure e i dovuti modi non credo che ci sia nulla di male in uno schiaffo correttivo. La vecchia maniera aveva i suoi perché ed è un peccato che stia sparendo».
I ragazzi la vedono come un modello da seguire, forse più per i vestiti che per i suoi testi.
«Su mille che comprano il disco magari arrivo a uno. Ma uno è meglio di niente. Nel rap, però, il pubblico è più attento, se avessi fatto il cantante pop sarebbe stato peggio».
Nel brano3 messaggi in segreteria canta: «Preferisco saperti morta che con un altro».
«L’ho fatto per sensibilizzare chi mi ascolta sul tema del femminicidio. Lo schiaffo correttivo è questo, sbattere in faccia in modo pesante una cosa brutta. È forte, lo so, ma così è impossibile ignorare il problema».