la Repubblica, 21 ottobre 2016
«Vite precarie e troppe rinunce per questo non avremo figli»
ROMA «All’inizio ci credevamo davvero: avremo un bambino. Sarà bello crescerlo, amarlo, la sola idea ci metteva allegria. Passavamo ore a immaginare la famiglia che avremmo costruito. Poi, invece, abbiamo fatto i conti, e abbiamo capito che con i nostri lavori precari, le famiglie lontane e gli affitti di Roma, quel figlio purtroppo non ce lo saremmo potuti permettere…». Non oggi. Forse mai.
Bisogna parlare con Bruna e Valerio per capire. Per dare volti e significati ai numeri che raccontano l’Italia delle culle vuote. Ascoltare le loro storie di trentenni plurilaureati, colti e brillanti, eppure con le vite prigioniere dell’incertezza. Ma decisi, anche, a non rinunciare a tutto pur di avere un figlio. Bruna ha 36 anni, è laureata in Scienze della comunicazione, ed è project manager in una piccola società. Valerio De Camillis, il suo compagno, è di due anni più giovane, è programmatore all’Istat e membro del “Mensa”, il club degli intelligenti. «L’unica cosa certa è il nostro rapporto – dice Valerio – Il resto è precario come l’Italia».
Siete giovani e innamorati. Avete due lavori. Perché un figlio sarebbe un costo insostenibile?
Bruna: «Io faccio un mestiere che mi appassiona, ma sono fuori dalle otto del mattino alle otto di sera. Guadagno 1.200 euro al mese e il mio compagno poco di più. Duemilacinquecento euro in due. Paghiamo un affitto di 850 euro al mese. Se avessimo un bambino avremmo bisogno di metterlo al nido, ma per un nido pubblico noi siamo paradossalmente troppo ricchi. E dovremmo pagare, oltre alla retta, anche una baby sitter che lo va a prendere. E poi c’è il dato più amaro: se vado in maternità ritrovo il mio posto di lavoro?».
Perché? La maternità è un diritto.
Bruna: «Forse per altre generazioni e per chi oggi ha un impiego sicuro. Ho visto molte mie amiche, in diversi ambienti, costrette ad andare via dopo essere diventate mamme».
E le nonne, i nonni?
Valerio: «Siamo entrambi meridionali, Bruna è siciliana, io vengo da Campobasso. Qui a Roma, dove siamo emigrati per studiare, non abbiamo nessun parente, e quindi nessuna rete di sicurezza per crescere un figlio. Il mio contratto all’Istat è precario, scade nel 2017. Come posso progettare un bambino se rischio di restare disoccupato?».
Tutto saggio e razionale. È vero però che forse, ad oggi, con i vostri due lavori, un bimbo potrebbe rientrarci...
Bruna: «Sì, ma a costo di rinunciare a tutto. Stretti in un bilocale con la piccola o il piccolo in salotto. Dovendo tagliare anche quelle poche cose che ci permettiamo».
Ad esempio?
Valerio: «I viaggi low cost, le nostre camminate, il poter partire con la macchina senza meta, da un momento all’altro. Però lo ammetto: se avessimo avuto le famiglie vicine, e un contratto stabile almeno per uno dei due, forse avremo tentato».
Non avete paura dei rimpianti?
Bruna: «Sì, sono sincera, abbiamo tanti amici con figli e vediamo la loro gioia. E forse arriverà il tempo in cui, da anziani, sentiremo un vuoto. Anche perché sia Valerio che io con i bambini stiamo benissimo. E ripeto, all’inizio della nostra storia, li volevamo davvero...».
Non ci sarà anche molta paura dietro questa rinuncia?
Bruna: «Quello che fa paura è la precarietà delle nostre vite. Cosa potremmo offrire a un bambino? Ho sempre pensato che a mio figlio avrei voluto dare il meglio».
Con un welfare diverso?
Valerio: «Chissà. Questo è uno dei motivi per cui spesso abbiamo pensato di emigrare all’estero. E forse lo faremo».
Non vi spaventa la prospettiva di un’Italia senza più bambini? Non vi sentite anche un po’ responsabili della crescita zero?
Valerio: «No, proprio no. C’è un saldo migratorio che assicurerà la sopravvivenza del Paese. Semplicemente sarà un Paese diverso. Del resto, la nostra generazione è stata depredata: come ci si può chiedere di credere nel futuro?».