la Repubblica, 21 ottobre 2016
Riuscirà la vecchia guardia a battere Trump e Le Pen?
E se poi vincesse la vecchia guardia? Se leader sperimentati e poteri stabiliti prevalessero sulla protesta populista? Se le elezioni previste di qui all’autunno 2017 portassero Hillary Clinton alla Casa Bianca e Alain Juppé all’Eliseo, con Angela Merkel reinstallata alla cancelleria e Matteo Renzi, sopravvissuto al referendum, ancora a Palazzo Chigi?
IPOTESI tutt’altro che azzardata, nel primo caso addirittura molto probabile. A quel punto, gli aruspici che dipingono l’apocalissi incombente, con ciò che resta delle democrazie liberali in mano a demagoghi irresponsabili o a ultranazionalisti xenofobi, tornerebbero rapidamente sui propri passi per informarci che l’emergenza è passata. Tutto sarà come prima, meglio di prima.
Si sarebbero sbagliati due volte. Adesso, perché gli scenari sono dannatamente oscuri, ma non per questo la condanna è scritta e attende solo di essere eseguita. Domani, perché il trionfo elettorale del citato quartetto non garantirebbe affatto la guarigione dai mali profondi che affliggono la vita associata di noi occidentali. Sarebbe – forse sarà – il segno che arrivati sull’orlo del baratro e gettato uno sguardo alle ignote profondità che vi si celano, nella maggioranza avrà prevalso l’istinto di conservazione. Condizione tutt’altro che sufficiente – nella migliore delle ipotesi – all’inversione di rotta che urge se siamo davvero interessati a salvare almeno parte del benessere e delle libertà ereditate dalle generazioni che ci hanno immediatamente preceduto. Per questo occorre qualcosa di più profondo. In quattro parole: ridare senso alla politica.
La tabe che sta più o meno intensamente affliggendo le democrazie occidentali, denominata “populismo” (termine abbastanza vago da consentire di riferirvi fenomeni i più disparati), non può essere esorcizzata da un voto, revocabile per definizione, tantomeno dalla retorica della buona volontà. Può essere combattuta e forse sconfitta solo recuperando ai cittadini la possibilità di scegliere fra ricette alternative. Precisamente ciò che gli establishment hanno negato, almeno dalla fine della guerra fredda in avanti, in nome del cosiddetto Washington consensus: totale liberalizzazione (meglio: anarchia) dei flussi finanziari, privatizzazioni a gogò, riduzione dei salari reali, compressione della spesa pubblica e dei relativi servizi. Tutto ciò in nome di una “globalizzazione” (altro passepartout) che prometteva di diffondere benessere all’intera umanità, senza vedere come la formidabile crescita della Cina e di altre società depresse si accompagnasse alla deprivazione materiale e morale dei ceti medi occidentali (ma anche di imponenti masse terzomondiali). Con in più, nell’Eurozona, il culto dell’austerità. Indubbiamente utile, almeno nel breve, al nucleo tedesco della nostra area monetaria, quanto devastante per tutti gli altri.
In Nordamerica e in Europa tale consenso precludeva di fatto quel processo di trial and error – la selezione sperimentale delle alternative – che negli ultimi tre secoli ha fatto la differenza fra Occidente e mondo. Si poteva e si può cambiare governo, non si poteva e a quanto pare ancora non si può cambiare politiche. I leader populisti rischiano di prevalere nei sistemi democratici inceppati da questa prigionia intellettuale, che nega il principio primo delle società aperte: la verità non appartiene a nessuno, perché ciascuno di noi ne porta una pur minima quota né alcuno può pretendere di incarnarla tutta. Perché se valesse il contrario, se solo a uno o a pochi fosse accessibile il buono e il giusto, il voto quale libera scelta fra proposte diverse – la corretta e le perverse – sarebbe atto criminale.
Il “consenso di Washington” è ormai criticato da molti e demonizzato da (quasi) tutti i populisti. Ai quali si è aggiunta la non autorevole voce della neopremier conservatrice britannica, Theresa May, impegnata nell’improbabile ricucitura del vallo che separa Londra dall’Inghilterra profonda: la vera causa della Brexit. Il consensus resta tuttavia prassi corrente nell’approccio del Fondo monetario e della Banca mondiale ai Paesi in crisi – per informazioni rivolgersi a greci o portoghesi.
La liberazione dal populismo presuppone il riconoscimento che è figlio dell’elitismo. Dell’illusione tecnocratica coltivata dalle oligarchie che stentano a convivere con la democrazia. Sistema politico che ha il brutto difetto di porre almeno in teoria su un piede di parità chi presume di conoscere la ricetta del bene comune e chi si ostina a sfidarne la presunta sapienza. Finché non ci libereremo da tale postulato, potremo certo tirare un sospiro di sollievo se cialtroni o peggio dittatori in sedicesimo non prevarranno nelle prossime elezioni. Ma altrettanto sicuramente dovremo rassegnarci a convivere a lungo con il populismo e con i suoi deplorevoli derivati.