Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 21 Venerdì calendario

La dottoressa Daniela: «La mia vita dedicata a combattere i tumori dell’Eternit»

CASALE MONFERRATO (Alessandria) «Lo trovavo seduto sulla vecchia poltrona di pelle scura/odore di chiuso, di caffelatte, di medicine, e giovinezze passate/Mi aspettava, sempre».
Era un anziano vedovo, abitava in una casa vicina allo stabilimento dell’Eternit. Quando si ammalò non ebbe bisogno delle lastre per capire. A Casale Monferrato lo sanno. Quel dolore che ti prende appena sotto alla spalla, così acuto da mozzare il fiato, ha un solo e definitivo significato. «Guarda che non puoi morire qui da solo, vieni in ospedale» gli disse la giovane dottoressa. Il signor Adolfo sollevò il bastone da passeggio e glielo puntò contro. «Non ti preoccupare, io ti aspetto» le rispose in dialetto.
A un certo punto della sua vita Daniela Degiovanni smise anche di scrivere poesie. Aveva perso ogni parola, nei versi dedicati agli amici, ai concittadini che accompagnava verso una morte dignitosa non trovava più alcuna consolazione. «Fin dal primo momento ho capito che non reggevo la sofferenza fisica degli altri, il loro dolore». A volte le scelte di vita non sono tali, sono solo cose che succedono.
Nel 1977 era una ragazza appena laureata in Medicina, tornata a casa per il fine settimana. In piazza Castello incontrò Giorgio Barbesino, un vecchio operaio di Eternit. «Hai voglia di venire a fare il medico per il patronato? Abbiamo tanti dei nostri che hanno la tosse ai polmoni». Non sarei all’altezza, non ci capisco nulla, si schernì la masnà giuvna, la ragazzina, come l’hanno chiamata per tanti anni. «Neppure il medico che c’era prima se per questo» fu la replica.
Nessuno aveva ancora capito che tra queste colline era in corso una guerra che nessuno aveva mai dichiarato, lunga ed estenuante, senza alcuna possibilità di vittoria, che avrebbe fatto 2.600 vittime. Sulla distesa di cemento che copre la fabbrica dell’amianto è sorto un parco della memoria, all’inaugurazione è venuto anche il presidente della Repubblica. Ma a Casale Monferrato si continua a morire.
Questo è l’anno peggiore. A fine settembre si contano già 75 nuovi casi di mesotelioma, il tumore dell’Eternit. Nella migliore delle previsioni il 2016 finirà a quota novanta, 20 in più del 2015 che a sua volta aveva fatto registrare il bilancio più pesante di sempre.
«Oltre a essere inguaribile, il mesotelioma è diverso da ogni altro tumore. Il dolore che provoca è il più bastardo che esista. Non risponde agli oppioidi, resiste ai trattamenti. Tutti sanno che non si guarisce. Tutti sanno che era evitabile, sappiamo il nome e il cognome di chi lo ha portato, qual è la causa. Io non ho fatto altro che cercare di risparmiare questo dolore, le corse nella notte all’ospedale, le urla, la morte indecente».
A fine mese andrà in pensione. Dopo quell’incontro in piazza Castello, Daniela Degiovanni accettò l’incarico. Si specializzò in Oncologia. Venne assunta in ospedale. Creò l’associazione Vitas, una delle prime in Italia che garantivano l’assistenza a domicilio. All’inizio erano in due, lei e l’infermiere Stefano. Lavoravano fuori dall’orario di servizio. Il prezzo da pagare per farsi carico del dolore degli altri è stato la solitudine. «Non ho voluto avere figli. Non avrei potuto». Una sera il suo compagno di sempre era rientrato tardi. Aveva preso i libri sparsi sul letto dove lei lo stava aspettando. La morte amica. Imparare a dirsi addio. Il dolore in oncologia. «Basta, non ne posso più». Fu il suo congedo.
L’hospice di Casale Monferrato sembra disegnato da un bambino, con le pareti colorate, i disegni delle scuole elementari, fiori e sorrisi ovunque. Nessuno più di Daniela Degiovanni può rendere il senso di questa ecatombe. Eppure è sempre rimasta nell’ombra. Come se fosse avvolta da un pudore diffuso, per il suo ruolo quasi sovrumano.
«Lo rifarei. Casale Monferrato è una città fantastica, fatta di persone straordinarie, che nella difficoltà, nell’angoscia hanno dato una prova estrema di dignità. Da Obama, Matteo Renzi avrebbe dovuto portarci anche questa gente. Ma sono colma di dolore. La ragione per cui vado in pensione è che il vaso è proprio pieno. Non riesco più a svuotarlo. Sento il bisogno di leggerezza, una parola che non ho mai conosciuto».
La preside Luisa, sua coetanea, amica di infanzia. «Se ne andò tra le mia braccia. E fu lei a consolare me. Non mollare Daniela, mi disse». Tre anni fa, il farmacista dell’ospedale. «Mi gettò la Tac su questa scrivania. Dopo quattro mesi non c’era più». Il giorno dopo bussò alla porta Mauro. Un collega, suo cugino, un ragazzone, medico di famiglia. Era ipocondriaco, come tanti a Casale Monferrato. Veniva spesso, a ogni dolore che sentiva. «Questa volta non ti frego» le disse con un sorriso triste. «Aveva una parola buona per tutti. Io ho cercato di averle per lui». Quando entrò in casa del vecchio Adolfo, lo trovò quasi esanime. «Hai visto? Adesso sono pronto».
In questo lento pomeriggio di occhi lucidi passano volti e nomi di persone che non erano pazienti, ma amici. «Non li ho mai sognati. Ma li ricordo tutti». Si mette la mano destra sul petto. «Sono qui, con me».
Per quel che possono valere gli auguri di uno sconosciuto, buona vita dottoressa Degiovanni. Nessuno la merita più di lei.