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 2016  ottobre 20 Giovedì calendario

In morte della commedia all’italiana

A un certo punto, nel corso degli anni settanta, tramontata l’Italia di Guardie e ladri, dei Soliti ignoti, dell’Armata Brancaleone e d’Una vita difficile, il paese diventa inenarrabile. Getta la spugna anche la commedia all’italiana, che per vent’anni aveva raccontato (e messo in ridicolo) i difetti e le (rare) virtù degl’italiani. Dopo il Sessantotto – quando l’Italia passa da Alberto Sordi e Totò a Nanni Moretti, dall’«arte d’arrangiarsi» al birignao marxleninista e politically correct, dalle tragiche domeniche al mare del Sorpasso alla contestazione studentesca e al terrorismo – raccontare il paese «diventa sempre più difficile».
Qualche anno più tardi, a raccontare l’Italia del «riflusso» (come si diceva negli anni ottanta) e poi del berlusconismo, saranno i film dell’Ispettore Monnezza, di Diego Abantantuono, dei cinepanettoni, delle fiction televisive fasulle e mal recitate. Gli autori delle classiche commedie all’italiana (a cominciare da Mario Monicelli, che racconta il suo cinema nella Commedia umana, una lunga intervista rilasciata a Sebastiano Mondadori nel 2005, oggi utilmente ristampata dal Saggiatore) improvvisamente non capiscono più in che paese vivono. Fino alla metà degli anni settanta «la commedia all’italiana» era «un gran calderone dove c’è di tutto. Con l’eccezione», dice Monicelli, «d’alcune derive scollacciate, pur nelle sue notevoli differenze e negli sbalzi qualitativi, è stata a lungo il termometro della società, fornendo di film in film delle fotografie della realtà italiana. L’attenzione a quanto accadeva sotto i nostri occhi è sempre stata una prerogativa del genere, come del resto del polar francese o dei racconti polizieschi americani». Ma ecco che d’un tratto il paese diventa incomprensibile, e non c’è più modo di raccontarlo in presa diretta, attraverso Alberto Sordi, Vittorio Gasmann, «Capannelle» e Folco Lulli, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e le altre maschere da commedia.
Non c’è neanche più modo di ricostruirne la storia prossima e remota, sempre sub specie commedia, come nei Compagni, nella Grande guerra, nell’Armata Brancaleone, o come nei grandi film di Luigi Magni, da Nell’anno del Signore a In nome del Papa Re: a nessuno, semplicemente, importa più nulla dell’Italia, della sua storia e delle sue storie, Monicelli, di questo particolare scacco, è stato forse la vittima più illustre: non c’è un solo film memorabile (tutti dignitosi, naturalmente, però quasi tutti visti e subito dimenticati) tra quelli da lui firmati dagli anni ottanta in avanti. Un borghese piccolo piccolo, del 1976, l’ultimo dei suoi grandi film, è uno sguardo da brivido sull’Italia che sta trasformandosi in qualcosa di cupo, di feroce. Un horror sociologico, come certe opere dei fratelli Cohen. Nessuno, nemmeno Monicelli, girerà film altrettanto coraggiosi e inquietanti negli anni a venire.
Ma proprio il racconto di questo tramonto, improvviso e definitivo, della commedia all’italiana, morti i suoi autori (Monicelli è scomparso nel 2010) e i suoi interpreti, è un ulteriore racconto sull’Italia, quella in cui viviamo da quasi quarant’anni, e che in tutto questo tempo, a parte le solite guerre civili per finta, non ha combinato niente. Un’Italia dove i magistrati s’illudono di farla da padroni, le riforme non si fanno o si fanno male, i talk show impazzano, la politica si dà al bunga-bunga o alla guerra contro i vaccini e non solo le fiction televisive ma anche i film sono recitati da cani. È un’Italia zoticona, da barzelletta senza parole: l’Italia Pippa degl’incapaci, degli sfigati e degl’improvvisatori.
Mario Monicelli, La commedia umana. Conversazioni con Sebastiano Mondadori, il Saggiatore 2016, pp. 342, 24,00 euro, eBook 10,99 euro.