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 2016  ottobre 17 Lunedì calendario

«Come vincere un referendum e perdere tutto». Intervista a Mario Segni

«Forse lei non ricorda, ma un tempo al luna park c’era un gioco, una specie di trenino, si tirava una molla e lo si lanciava. Doveva fare una lunga serie di giri e curve della morte, l’obiettivo era superarle tutte altrimenti tornava indietro. Oggi ancora non sappiamo se il trenino avrà la forza necessaria per compiere il percorso. Se vince il sì, magari». Mario Segni, che dei referendum ha fatto la storia, sul 4 dicembre non ha dubbi. Il punto, spiega, è che se vincerà il no «Renzi sarà debolissimo, prevarrà una politica proporzionalista, quella della sinistra Pd. Sarebbe buttare a mare tutte le riforme fatte dal 1991 a oggi». Sarebbe come buttare a mare la sua storia politica, nata nella Dc e maturata fino a sfiorare Palazzo Chigi, ma con un minimo comune denominatore: l’idea di un sistema elettorale maggioritario e, nel migliore dei mondi possibili, del presidenzialismo. «Il mio, va da sé, è un sì convinto. Ma sulla riforma sono anche molto critico».

Il Senato, immagino

«La mia riserva principale».

Lei è tra chi sostiene che Renzi abbia sbagliato a personalizzare il referendum. Può ancora rimediare?

«Non è più in tempo e non ne ha intenzione: ha completamente assorbito la campagna elettorale e continua a farlo. Errare humanum est, perseverare è diabolico: avrebbe dovuto sin dal principio coinvolgere altri attori. Gran parte del mondo imprenditoriale e un buon numero di costituzionalisti sostengono la riforma, ma gli italiani neppure lo sanno. Mi permetto di pensare al ’91, Confindustria si schierò apertamente non noi...».

...e questo le attirò le ire di De Mita.

«Certo. E di molti altri. Ma creammo un fronte ampio e vincemmo». 

Non crede che riducendo tutto alla sua persona, in caso di vittoria, Renzi ambisca a liberarsi una volta per tutte della sinistra Pd?

«L’ipotesi è fondata. Ma non ne avrebbe bisogno: è già padrone del partito».

Ritiene plausibile una scissione?

«Non ci avevo mai creduto, ora inizio a pensare che sia possibile. Soprattutto se vincesse il no: con il proporzionale sarebbe più semplice inserirsi nel gioco».

L’azione di D’Alema è dettata da rancore o reale convincimento?

«L’uomo politico è prima di tutto un uomo, con virtù e difetti. L’ambizione non è un peccato e il fatto che D’Alema con il suo carattere la accentui è evidente. Il suo atteggiamento non mi meraviglia. L’ideale sarebbe chiudere una fase per aprirne una nuova, ma non possiamo pretendere la perfezione».

Il no di Bersani l’ha sorpresa?

«Non ci vedo nulla di particolare, è sempre stato all’opposizione di Renzi. Opposizione debolissima, fatta più di clamore che atti decisi. In questo caso almeno la posizione è chiara: il pregio del referendum è che ti costringe a scegliere una parte».

In caso di sconfitta Renzi lascerà la politica?

«Non penso proprio. Non gliene faccio rimprovero: ha 40 anni...».

Dell’Italicum immagino non apprezzi la restaurazione dei capilista bloccati.

«Ci mancherebbe».

Com’è possibile ritrovarseli ancora?

«Ufficialmente la colpa è stata data a Berlusconi, che certo ha le sue responsabilità, ma sono convinto che lo stesso Renzi sia contento di un’ampia quota di nominati: rende

più facile l’esercizio del potere. Sul punto concorda quasi tutta la classe parlamentare: l’apparato non tende a vincere, conta restare nel gioco eterno».

Nel 2005, nei giorni del Porcellum, lei scrisse una lettera al blog di Grillo, riconoscendogli una rilevanza politica con un certo anticipo sui fatti. Cosa pensa del M5s oggi?

«È un fenomeno di cui nessuno aveva avvertito l’importanza: chi prevedeva che si ponessero come potenziali vincitori in tutti i ballottaggi? Il M5s non va demonizzato, ma è il segno rivelatore della profondità della crisi italiana. L’eccessiva giovinezza rischia di essere pericolosa: avrebbero bisogno di anni per approfondire la loro linea. Sono europeisti oppure no? Appoggiano Putin o gli Stati Uniti?».

Centrodestra. Vede una figura, anche esterna alla politica, in grado di resuscitarlo?

«Assolutamente no. Non entro le prossime elezioni e neppure dopo. Le ragioni sono due. La prima, la destra in Italia è in crisi da quando è finita la politica centrista della Dc degasperiana. La seconda riguarda Berlusconi: è stato artefice di una ricostruzione parlamentare, ma oggi la condanna all’inesistenza. È il fattore K della destra, ciò che si diceva del Pci: non può governare né lascia governare».

Immagino che non ritenga Parisi un’alternativa.

«Mi pare che abbia accettato la situazione che le ho descritto, alla quale dovrebbe ribellarsi: la destra deve nascere, non svilupparsi».

Nel ’99 tentò il “grande centro”, il Patto Segni confluì in An. Che ricordo ha di quell’esperienza con Gianfranco Fini?

«Ottimo della persona, ma non avevo compreso quanto Fini fosse distante dal suo partito: superò l’Msi, ma lo zoccolo duro rifiutò il passaggio. La nostra fu una sconfitta, naturalmente, un tentativo molto affrettato».

La sua storia è legata a doppio filo a quella di Pannella, con cui ebbe un rapporto ondivago. C’è un’immagine che conserva con più affetto?

«Una frase: mi diceva che ero un cripto-comunista, che se mi si grattava la scorza sotto si trovava l’essenza. Frasi che poteva dire solo Pannella. C’era un’innata simpatia tra di noi».

Eravate rimasti in contatto?

«Lo vidi pochi mesi prima che morisse, alla messa di un caro amico comune. Attraversammo il centro città in macchina, stava ancora benino. Quando si è aggravato ero negli Stati Uniti, mi è spiaciuto non andare ai funerali».

Nel ’93 rifiutò il ruolo di vicepremier in un ipotetico governo Prodi, spianando la strada a Ciampi. Se ne è pentito?

«Era una scelta difficile allora ed è difficile risponderle oggi. Ammetto che ho perso uno strumento che non avevo considerato: dal governo avrei pilotato la riforma elettorale, non ci saremmo ritrovati il Mattarellum e la restaurazione della partitocrazia. Fu un errore di superbia: eravamo convinti di avere i numeri in Parlamento. Errore marchiano: fummo subito battuti».

Bossi lo scorso aprile ha detto che “Segni è l’unico che ho fregato in vita mia”. Si riferiva al sostegno alle politiche del ’94, accordato e ritirato a tempo record. Che ricordo ha di quel momento?

«Conservo la sensazione di sorpresa: gli italiani invece di arrabbiarsi con chi aveva stracciato un’intesa sottoscritta in qualche modo plaudirono il furbacchione Bossi. Lo ho sempre ritenuto una persona totalmente inaffidabile: se ne sarebbe accorto pure Berlusconi».

Il Cavaliere nell’autunno del ’93 le propose oppure no di candidarsi premier? Da lei ho sentito due versioni discordanti.

«Non toccammo l’argomento. Lo incontrai a pranzo a casa di Gianni Letta. Berlusconi chiedeva solo di lavorare assieme per evitare la vittoria della sinistra. Ma la mia era una posizione più estrema: gli dissi che l’errore era il suo ingresso in politica. Dopo l’incontro suppongo mise in giro la voce che io avessi rifiutato la candidatura, ma chi lo conosce sa che lui pensava soltanto a un impegno in prima persona».

L’avversario che più ha rispettato?

«Per intelligenza e valore politico dico Craxi: schietto, leale. Questo non cancella le sue gravi responsabilità nella corruzione che dilagò in Italia».

Lei ha due etichette: “l’uomo che ha perso il biglietto vincente della lotteria” e “l’uomo che aveva in mano l’Italia”. Quale le dà più fastidio?

«La prima è insidiosa: la lotteria erano i referendum e li ho vinti. Poi ne ho corsa una seconda, e le elezioni le ho perse. La seconda, che pare essere un complimento, è lontana dalla realtà: ho avuto grande popolarità ma non ho mai avuto in mano nulla».

In politica lei è un vincitore o uno sconfitto?

«Dipende da come si considerano vincitori e vinti: Veneziani in un suo bel libro sostiene che Papa Wojtyla sia il più grande perdente del secolo. Per quel che mi riguarda, senza modestia, mi considero un vincitore. Le riforme che volevo fare le ho fatte. Può darsi però che tra due mesi questa storia durata vent’anni sia del tutto finita».