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 2016  ottobre 17 Lunedì calendario

«Le seconde possibilità esistono solo nella scrittura». Intervista a Ginevra Bompiani

ROMA C’è Ingeborg Bachman che piange perché non riesce a trovare la casa degli amici. Poco prima è apparso José Bergamìn, un passo di flamenco per commiato. E ancora Gilles Deleuze, accasciato su una sedia nel pianerottolo. L’album di istantanee di Ginevra Bompiani coglie un’epoca gigantesca e terribile nel tratto terminale. Come un continente che si allontana ogni giorno di più e i suoi protagonisti stanno sul bordo a salutarci. Ciascuno con il suo mistero. E la più misteriosa di tutti appare l’autrice, la cui timidezza è rimasta intatta dopo una vita di incontri e di invenzioni con i libri – editrice, scrittrice, traduttrice, docente universitaria. E figlia del grande Valentino.
Un libro di memorie con un titolo tecnologico, “Mela zeta”. Perché?
«Sono i due tasti del computer che ti permettono di tornare indietro, di correggere l’ultima parola. Naturalmente non possono essere usati nella vita, altrimenti staremmo sempre schiacciati sulla tastiera. Però puoi recuperare alcune cose con la memoria. E la scrittura dà agli eventi del passato una seconda possibilità, quella che Henry James chiama the second chance».Il suo appare soprattutto un omaggio a un’epoca che si è chiusa.«Racconto degli incontri che mi hanno colpito al cuore, lasciandomi però affamata: come se li avessi mancati».
Cosa ha mancato di Elsa Morante?
«Sono mancata io. Mi metteva in grande soggezione, così vivevo ritratta in un rapporto di contemplazione e ascolto. Con lei non mi sentivo pienamente me».
La ritrae molto spigolosa, anche sulla spinta delle anfetamine che assumeva.
«Poteva essere molto pungente: non esercitava la sua parola affilata nei miei confronti, ma soffrivo lo stesso se lo faceva con gli altri. Del resto anche io ho preso delle anfetamine e le ho studiate alla Sorbona: aumentano l’adrenalina e l’aggressività».Al suo capezzale tratteggia anche Moravia, verso cui però non mostra grande simpatia.
«Era il solo a cui ho sempre dato del lei, tutta la vita. Forse anche perché era l’unico tra gli autori Bompiani a starsene sulle sue. Mio padre diceva che non gli aveva mai offerto un caffè».
Con Deleuze a Parigi è stato l’incontro più emozionante.
«Sì, quello che in parte mi ha cambiato la vita. Alcune parole sulla libertà mi sono rimaste incise. C’è una piccola regione di libertà che si può ridurre o ingrandire. Fece un esempio molto semplice. Se sto studiando, e gli amici mi chiamano per raggiungerli al bar, posso scegliere che cosa fare: se rimango a casa, allargo la mia regione di libertà».
E lei in che modo ha difeso la sua frangetta di libertà?
«Facendo coincidere parola e pensiero e cercando sempre di inventare qualcosa di nuovo».
Lei definisce una sera a cena con Deleuze quella più felice della sua vita.
«Felicità nel senso in cui usa la parola Glenn Gould. Ogni esecuzione richiede infinite prove ma una volta o due nella vita c’è una esecuzione felice che sembra venire da sé. Quella sera, a casa di amici, tutto sembrava perfetto: l’atmosfera, la calma intensa, la conversazione. E io per una volta non mi sentii sopraffatta da paura, ansia, timidezza».
Lei accenna spesso a questo suo stato d’animo, come se fosse in affanno rispetto ai personaggi tratteggiati. Un affanno privo di giustificazione.
C’entra qualcosa suo padre?
«Sicuramente. Non era un padre che infondeva sicurezza. Con lui c’è stato uno scontro leale che è durato tutta la vita. A otto anni mi faceva leggere le sue commedie e io le commentavo. Lui aveva una volontà molto forte che tendeva a imporre sugli altri. E io avevo paura ma non amavo le imposizioni. Così sono sempre stata combattuta tra il timore e il desiderio di armarmi».Ha fondato la sua casa editrice Nottetempo solo dieci anni dopo la morte di suo padre.
«Dovevo chiudere la sfida con lui in modo che potesse diventare serenamente il mio modello».
Quest’anno ha venduto le sue quote.
«Avevo perso la carica. Ho sempre fatto le cose che mi piacevano e finché avevo la capacità di inventarle. Mi sembrava di non inventare più abbastanza».
Questi suoi incontri sono scritti spesso in prima persona plurale. E quel noi allude a una persona che cita solo con il nome, Giorgio.
«Non sempre il noi è riferito a Giorgio Agamben, ma certo è molto presente essendo stato il mio compagno per tantissimi anni. Non volevo però coinvolgerlo nel suo ruolo pubblico».
È sbagliato leggere questo libro anche come un atto d’amore verso di lui?
«È un atto d’amore nei confronti di tutte le persone che evoco. Ma non mi piace parlare della mia vita privata. Giorgio ha partecipato a grandissima parte di questi incontri, ma non a tutti e non nello stesso modo».
Vi siete conosciuti alla Bompiani?
«Ma no, eravamo molto giovani quando ci incontrammo la prima volta. Vivevo a Parigi e durante un viaggio a Roma, una mia amica volle fare una festa in mio onore. Nominò questo suo amico Agamben: che bel nome, perché non lo invitiamo? La sera stessa cominciò la nostra storia».
Insieme faceste una collana per Bompiani.
«Sì, il Pesanervi, una collana di letteratura fantastica che allora – eravamo a metà degli anni Sessanta – era considerata narrativa di destra. La collana la facevo io, ma l’idea era stata di Giorgio. Wilcock diceva che Ginevra dirigeva il Pesanervi e Giorgio dirigeva Ginevra».
Si faceva dirigere anche nella vita?
«Diciamo che Giorgio come mio padre ha sempre amato dirigere. E io ho sempre amato combattere».
Il suo Giorgio dovette misurarsi con un altro Giorgio illustre: Manganelli.
«Manganelli era un personaggio molto difficile: bisognava pranzare a una certa ora, non un secondo più tardi. Tra lui e Agamben c’erano stati problemi per via di un appartamento, così preferivano evitarsi. Una sera a cena mi ribellai e imposi a ciascuno la presenza dell’altro. Il silenzio era interrotto solo dalla mia voce. E mentre correvo tra la sala da pranzo e la cucina udii Manganelli chiedere gravemente all’altro Giorgio: “Lei va a caccia signor Giorgio?”».
Con Manganelli giocavate a scoprire l’umore dell’altro.
«Sono molto sensibile agli umori: fin da bambina riconoscevo l’umore di mio padre dall’ascensore. E anche Manganelli era bravo. Un giorno mi disse “Sei ingiustamente infelice per non assumerti l’infelicità che ti spetta”. Credo volesse dire che uno si crea delle false infelicità per non affrontare quelle vere».
Tranne un signore misterioso, i protagonisti del suo racconto non ci sono più.
«Ho scelto di raccontare gli incontri incompiuti, persone a cui non posso più telefonare. Mi dispiace molto non aver più chiamato Ingeborg Bachman, per una forma di riserbo. Se fosse ora a Roma mi attaccherei al telefono. Ma so che non è vero. Uno cade sempre negli stessi errori».
Perché ci si perde?
«Per discrezione. Rimbaud dice “per delicatezza”. Anche se so che le cose finiscono, qualcosa mi impedisce di prenderne atto».