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 2016  ottobre 17 Lunedì calendario

La sfida di Trump a donne e ispanici, così i repubblicani rischiano l’oblio

GLI STATI Uniti sono abituati alla condiscendenza degli europei. Un’area che nel vecchio continente spesso viene additata come prova della grossolanità degli americani è il nostro presunto atteggiamento puritano nei confronti del sesso. Ai tempi in cui le regole di Hollywood imponevano di mostrare coppie sposate che dormivano in letti separati, e i rapporti sessuali dovevano essere raffigurati con un treno che entrava in un tunnel, questa accusa poteva avere delle basi. Ma il nostro puritanesimo è in ritirata ormai da mezzo secolo. E da mezzo secolo i politici repubblicani cercano di arruolare gli elettori che non vedono di buon occhio questo cambiamento culturale in una crociata politica: votate per noi, è la promessa, e noi salveremo la nazione dal sesso, o dalla droga, o dall’omosessualità, o dall’hip-hop.
Ma ora che Donald Trump, il candidato repubblicano alla Casa Bianca, è stato smascherato (dalla sua stessa voce) come un uomo che scherza con nonchalance sul fatto di essere in grado di commettere aggressioni sessuali («le afferri per la fica») e farla franca («puoi fare quello che vuoi»), il partito dell’elefantino sembra sull’orlo della dissoluzione: molti importanti esponenti si sono dichiarati disgustati dal comportamento di Trump e stanno prendendo le distanze dal candidato, ma il nocciolo duro dei suoi sostenitori all’interno del partito gli è rimasto fedele e ha liquidato lo sdegno generalizzato per le parole e le azioni (professate) del miliardario newyorchese come un rigurgito di “political correctness”, classificando le sue osservazioni come mere vanterie da «spogliatoio». Com’è possibile che il partito dei «valori della famiglia» abbia finito per accettare un libertino come portabandiera? E come può sperare di uscire da questa situazione?
Gli esponenti repubblicani in corsa per la rielezione sono in una posizione difficile: se rompono con Trump, i fan di quest’ultimo potrebbero rifiutarsi di sostenerli il giorno del voto, mettendo a rischio la loro carriera politica e la maggioranza repubblicana nelle due camere del Congresso. Se rimangono al suo fianco, daranno l’impressione di approvare il suo comportamento, facilitando gli sforzi dei democratici per portare dalla loro parte gli elettori indecisi, ora e forse anche per le elezioni future.L’esponente repubblicano di maggior profilo a Washington, il presidente della Camera dei rappresentanti Paul Ryan, il giorno dopo il secondo dibattito fra Trump e Hillary Clinton ha annunciato che non intende più «difendere» il candidato del suo partito e che concentrerà i suoi sforzi sulla battaglia per conservare la maggioranza repubblicana nel Congresso. Trump ha scagliato commenti al vetriolo contro di lui su Twitter, e Ryan sembra ancora restio a rompere formalmente con il miliardario, come hanno fatto altri esponenti di primo piano del partito (per esempio il senatore John McCain, vincitore della nomination nel 2008).
Insomma, ormai– come ha scritto la scorsa settimana FiveThirtyEight, il sito giornalistico focalizzato sulle statistiche – la domanda è: «Questo è quello che succede quando un partito va in pezzi?».
Il sistema bipartitico americano, e i due grandi partiti stessi, hanno dimostrato nel tempo una notevole capacità di tenuta. Le radici del partito democratico si possono far risalire fino a Thomas Jefferson, a James Madison e alla genesi stessa della politica elettorale americana. Il partito repubblicano emerse negli anni Cinquanta dell’Ottocento come motore politico dell’opposizione morale alla schiavitù.
E dagli anni Cinquanta dell’Ottocento in poi, la corsa per la Casa Bianca è stata quasi sempre una gara dominata da questi due partiti. La scomparsa di un grande partito in America è un evento raro, più o meno quanto la candidatura rilevante di una terza forza. Due volte è capitato che un grande partito scomparisse: il Partito federalista, di cui facevano parte George Washington, Alexander Hamilton e John Adams, non sopravvisse alla guerra angloamericana del 1812. Ma il “partito” federalista non fu mai un’entità politica coerente e organizzata, perché moltissimi federalisti aborrivano il concetto stesso, giudicandolo un segnale di settarismo corrotto. (È difficile avere successo come partito politico se quello che trovi ripugnante è proprio la politica di parte.) E il partito Whig, che si formò negli anni Trenta dell’Ottocento, crollò (come molte altre istituzioni americane) negli anni Cinquanta dello stesso secolo per effetto delle tensioni che sarebbero sfociate nella Guerra di Secessione.
I democratici e i repubblicani di oggi portano etichette vecchie di secoli, ma l’identità di entrambi i partiti si è modificata nel corso dei decenni, soprattutto a causa della stessa questione che aveva provocato la fine del partito Whig: il posto degli afroamericani nella nazione.
Dal momento che il partito repubblicano era il partito di Lincoln, il Sud, per decenni, divenne un solido bastione elettorale democratico. Neanche Franklin Delano Roosevelt (che era democratico) all’apice del suo potere e della sua popolarità, negli anni Trenta, osò portare avanti un programma di misure di giustizia razziale, perché i democratici razzisti del Sud tenevano in mano gran parte delle leve di potere del suo partito a Washington.Il partito democratico di Roosevelt era una curiosa alleanza di elettori del Nord, in larga parte di estrazione urbana e spesso immigrati o figli di immigrati, ed elettori protestanti del Sud che si preoccupavano principalmente di preservare la «supremazia bianca». Questa versione del partito democratico cominciò a scricchiolare seriamente nelle elezioni del 1948, quando i democratici del Sud, contrari alla ricandidatura del presidente uscente Harry Truman, abbandonarono la convention e poi sostennero per la corsa alla Casa Bianca il senatore razzista della Carolina del Sud Strom Thurmond, candidato per il partito dei diritti degli Stati. (Di Truman non gradivano il suo crescente sostegno ai diritti civili, e in particolare il suo storico decreto per la fine della discriminazione nelle Forze armate, promulgato nel luglio di quell’anno.) Quando il presidente Lyndon Johnson (un democratico del Texas) fece approvare la legge per i diritti civili nel 1964 e quella per i diritti elettorali nel 1965, la conformazione esistente del partito democratico andò in pezzi e la mappa elettorale si trasformò: nei decenni successivi gli Stati del Sud che prima votavano costantemente il partito dell’asinello si spostarono armi e bagagli nel campo repubblicano.
Mentre le dinamiche della politica razziale si spostavano gradualmente, le posizioni sempre più conservatrici del partito repubblicano sulle questioni sociali contribuirono a determinare un rapido cambiamento nella distribuzione dei consensi elettorali per genere: nelle elezioni presidenziali degli anni Settanta il voto femminile si era ripartito equamente fra democratici e repubblicani, ma a partire dalla sfida tra Carter e Reagan del 1980 cominciò a emergere un divario di genere e le donne, da allora, tendono a votare in maggioranza per i democratici (in media il partito dell’asinello intercetta un 8% in più di voti femminili, secondo uno studio pubblicato a luglio dal Pew Research Center).
La forza del partito democratico tra le elettrici e le minoranze ha spostato il centro di gravità della politica americana. La campagna di Barack Obama del 2008 ha segnato il debutto di una nuova realtà, con due Stati del Sud (Virginia e Carolina del Nord) che hanno contribuito a eleggere il primo presidente nero della storia americana. (In quell’occasione Obama portò a casa anche la Florida.) Molti politici repubblicani hanno interpretato questa sconfitta come un segnale d’allarme e hanno cominciato a darsi da fare per rendere il partito più attraente per le minoranze (in particolare gli ispanici) e le donne; altri, sfruttando le invettive dei conduttori radiofonici di destra e l’odio sparso a piene mani attraverso la Rete, hanno cominciato invece a seguire un percorso più demagogico. La bugia dei birthers (sostenuta e rilanciata da Trump)su Obama che non sarebbe nato sul suolo statunitense e quindi non avrebbe potuto, per la legge, diventare presidente è solo uno fra i tanti esempi di retorica razzista e nativista utilizzata dalla propaganda di destra. Considerando tutto questo, i repubblicani non hanno molte speranze di migliorare la loro performance fra gli elettori neri e ispanici nelle imminenti elezioni. Ma il colpo più serio per le prospettive del Grand Old Party viene probabilmente dall’allargamento di quel divario di genere che aveva cominciato ad aprirsi già nel lontano 1980: quell’8% in più di consensi a favore dei democratici grazie a Trump è quasi raddoppiato, arrivando al 15% (secondo la media dei sondaggi recenti pubblicata da FiveThirtyEight), e un sondaggio lo quantifica addirittura in un 33%. In un contesto in cui le disparità salariali tra uomini e donne, la «cultura dello stupro» e i diritti riproduttivi giocano un ruolo importante nel determinare il voto femminile, le parole e le azioni di Trump sembrano destinate a restringere ancora di più la base elettorale repubblicana. Se Trump perderà le elezioni, il suo lascito dipenderà dall’entità della sconfitta, da quanti altri repubblicani trascinerà con sé nella disfatta e dalle decisioni che prenderà il partito per rilanciarsi. Considerando che alla Casa Bianca probabilmente ci sarà Hillary Clinton, nelle vesti di primo presidente donna, riconquistare il consenso delle elettrici non si prospetta come un’impresa semplice per i repubblicani. Soprattutto se continueranno a insistere su «valori della famiglia» anni Cinquanta in una nazione dove il 40% di tutti i bambini nasce da donne non sposate.
L’evoluzione demografica, oltre che «un conveniente riguardo alle opinioni dell’umanità» (per usare le parole della Dichiarazione di indipendenza), sembrerebbe puntare nella direzione di un partito più inclusivo. Ma con i repubblicani impegnati in una guerra civile trumpiana e molti leader del partito troppo pavidi per scaricare Trump nonostante il disprezzo con cui li tratta, serviranno sforzi considerevoli per trovare una via d’uscita. Tenendo conto della capacità di tenuta dei partiti americani, e del valore del «marchio» repubblicano, è improbabile che il Grand Old Party scompaia. Ma è praticamente certo che nei prossimi quattro anni il partito dell’elefantino dovrà forgiare una nuova identità, se non vuole essere ridotto a un ruolo sempre più marginale nella vita politica statunitense.