la Repubblica, 17 ottobre 2016
Deserto e scatoloni, gli ultimi giorni del Cnel. «Solo il No ci salverà»
ROMA Villa Lubin, cinquantuno giorni alla fine. Un operaio si arrampica a fatica sulla scalinata di marmo lucido del Cnel. È tutto un trasloco e una gara di sbadigli, in questa Stalingrado del No. Il 4 dicembre sarà testa o croce, vita o morte, scatoloni o champagne. Sedia dopo sedia, quadro dopo quadro, l’amministrazione ha completato da tempo l’inventario dei beni. In giro per le stanze spuntano pacchi e nastro adesivo, librerie spoglie e il vuoto triste degli sgomberi. A presidiare il palazzo resta solo un carabiniere, un custode, un vicepresidente e una manciata di dipendenti. Tutto sembra scritto, ormai. L’ente più odiato da Matteo Renzi chiude i battenti e nessuno lo rimpiangerà. E se invece finisse bene, alla faccia di tutti gli anticasta d’Italia? «Certo che può vincere il Sì, come quel Milan-Liverpool – sorride il numero due Gian Paolo Gualaccini – in cui gli inglesi ribaltarono lo 0-3 conquistando la Champions. Il Cnel non funziona e serve una riforma profonda, ma se uno è ferito a una mano non devi per forza amputargli il braccio...».
Storta com’è, la freccia che guida il visitatore è rivolta per errore verso il Muro Torto. Un curioso depistaggio o un segno del destino? Chissà, intanto i sondaggi raccontano che il vento del No spira forte, rispetto a un anno fa: «Io voto contro la riforma – confida il presidente Delio Napoleone – ma comunque vada siamo sereni: il Cnel si trasformerà, ma non chiuderà. Lo chiede pure l’Europa».
La maggior parte dei consiglieri di questo organo consultivo del Parlamento e del governo in materia economica, a dire il vero, ha mollato da tempo. La grande fuga inizia un anno fa, alla scadenza del mandato. In quel momento l’impopolarità del Consiglio supera quella delle zanzare d’agosto. Si dimettono in quaranta, solo ventiquattro restano in carica per una prorogatio che non prevede stipendi o rimborsi. Continuano a lavorare, «per rispetto dell’istituzione». Tra loro Delio Napoleone, «sono il presidente cireneo», e pure il suo vice: «Fino al 4 dicembre siamo re travicello...». Il palazzo però è troppo grande, i corridoi si fanno sempre più deserti. Alle riunioni è un’impresa raggiungere il numero legale. Un silenzioso, inesorabile declino.Non esiste un 5 dicembre, sulla carta. Come per un rito scaramantico, tutti si comportano come se il domani fosse già appaltato al Sì. «Torno adesso dall’Inps – spiega uno dei funzionari, piegato sotto il peso di un maxi faldone – perché voglio capire come faremo con i contributi, una volta trasferiti». Ragionano così, ma dietro la schiena incrociano le dita. «Lavoreremo fino all’ultimo giorno – promette al telefono il dirigente capo Michele Dau – pensi che oggi sono a Taranto per discutere del rapporto sugli indicatori Bes». Chi invece ha preferito abbandonare la nave adesso mastica amaro: «Parecchi consiglieri che si erano dimessi – giura il presidente – si sono pentiti della scelta. Uno di loro è il fratello di Valerio Onida. Hanno lasciato quasi come per fare un dispetto, come se io mi dimettessi da mia moglie, mia moglie da mio figlio...».
Gli occhi delle istituzioni sono puntati da tempo sul Cnel, nel senso dell’edificio. Qualche tempo fa il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha visitato villa Lubin. «Ma non credo che ci sia spazio a sufficienza per trasferirsi qui – spiega Napoleoni – Mentre è possibile che questo palazzo diventi la residenza privata del Presidente della Repubblica». Ormai è ora di pranzo. Un dipendente saluta il custode. «Ti ritrovo più tardi?». Certo che sì, nulla si muove fino al referendum, neanche gli scatoloni e i porta penne nelle stanze sigillate di dirigenti già dirottati in altri ministeri. In tasca, non si sa mai, hanno un biglietto di ritorno per il 5 dicembre.