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 2016  ottobre 16 Domenica calendario

Salvatore Sciarrino

ROMA La musica contemporanea è un guaio grosso: inutile fingere che non sia vero. I pezzi “classici” composti oggi o nel passato prossimo pesano come sassoloni nelle scarpe di molti spettatori. Che fine ha fatto la melodia? Dov’è il piacere dell’ascolto? L’atonalismo e la dodecafonia hanno prodotto guasti mai sanati nel rapporto tra autori di estrazione colta e pubblico. Lo sa bene Salvatore Sciarrino, il più famoso compositore italiano vivente. È troppo intelligente per non saperlo. Però sostiene di non crederci. A suo parere quelle difficoltà dipendono dagli esiti di eccessivi condizionamenti sensoriali: «Certa musica risulta ostica a causa di un diffuso imprinting negativo. L’intero clima sonoro che ci circonda ignora la libertà d’ascolto e impone esclusivamente la musica leggera: la pubblicità, la televisione, gli insegnanti nelle scuole... Andrebbe fatta tabula rasa». In verità, segnala, «tutta la musica colta, e non solo la contemporanea, passa per noiosa e ansiogena. Tempo fa mi capitò di sottoporre, per conto di un istituto di psicologia della musica, un gruppo di bambini a una serie di test, constatando che associavano un quartetto di Beethoven a un’invasione di marziani». Intende dire che già da piccoli siamo plagiati musicalmente? «Esatto». Ma come si fa a partire da un grado zero dell’ascolto in questa nostra realtà soffocata dal rumore? «Tramite un lavoro di ecologia. Da ragazzino, in Sicilia, facevo ascoltare Stockhausen nei circoli di paese e gli uditori sentivano il suono dell’acqua o il canto degli uccelli. Se si è dentro la routine della vita, non si fa altro che parlare. Parli e parli, senza riflessione: il tacere ci dà ansia. Solo nel silenzio sarà possibile riflettere e ascoltare».
Sciarrino ha appena ricevuto il Leone d’oro alla carriera per la musica dalla Biennale di Venezia: riconoscimento alto e meritato per un creatore eretico e genialmente singolare, ormai eseguito in tutto il mondo. A quasi settant’anni (li compirà nel 2017), mantiene un tono scanzonato da ragazzo. È il più buffo e gradevole incontro che si possa fare in un caffè del centro diRoma la mattina presto. Gioca, scherza, divaga, suggerisce, commenta. Emana qualcosa d’innocente e impudico, da folletto. Nulla di solenne o istituzionale sfiora i suoi discorsi. Si colloca all’opposto del grande compositore parruccone e vanesio. Sembra appagato, salutista e zen. Da oltre un trentennio ha preso casa a Città di Castello, «tuffato nel verde e respirando aria pulita, fondamentale per le mie allergie». Parla del proprio corpo e del suo tono energetico: «Per tenermi in forma cammino moltissimo, dai sei ai dodici chilometri al giorno, e faccio tanto l’amore». Si è stabilito nella cittadina umbra perché vi ha trovato la dimora che cercava, «duecento metri su tre piani, dove ho potuto mettere tutta la mia biblioteca e la mia folta quadreria». A Roma è di passaggio dopo aver ritirato il suo Leone, e narra che la cerimonia veneziana è stata «un po’ una festa di compleanno, che mi ha fatto evadere dalle mie abitudini di uomo schivo e riservato».
La motivazione del premio lo ha definito un autore capace di conquistare dimensioni sonore inaudite, “mostrando come la musica, per rinnovarsi, debba uscire da forme storicizzate e divenire un’esperienza dove lo spettatore è al centro di fenomeni misteriosi e quasi ancestrali”. In effetti certi suoi lavori strumentali danno l’impressione sorprendente di percorrere il limite magico tra suono e silenzio, movimento e stasi. Poco o niente succede nella sua musica, recitava la laudatio del Salzburger Musikpreis attribuitogli nel 2006. Ma quel niente, che penetra nei più reconditi moti naturali, si affaccia sull’infinito. E fa scoprire l’infinitamente piccolo come gli Haiku giapponesi, di cui Sciarrino è un cultore dall’infanzia, «quando ebbi la fortuna di leggere il maestro Basho, asceta del periodo Edo. Le sue poesie rapide ed essenziali fanno percepire con immediatezza il mondo esterno per trarne un ritmo e una successione».
Salvo, come lo chiamano gli amici, è stato un bimbo precoce: nato a Palermo in un famiglia piccolo-borghese, dipingeva quadri a quattro anni,«e a nove ero giunto all’informale dopo aver visto riprodotte le opere di Burri. Ne avevo dodici quando la musica ha fatto irruzione nella mia vita, senza studi tradizionali: mai avuto un diploma di conservatorio». È un autodidatta ostile agli accademismi: «Da ragazzo mostravo i miei esperimenti musicali a un compositore, Antonino Titone, fondatore delle settimane di Nuova Musica di Palermo, manifestazione profetica e seguita a livello internazionale, dove a diciott’anni venni stroncato dalla critica perché scrivevo cose non somiglianti a niente». Osserva che i musicisti tendono a essere corporativi, «mentre per me conta l’insieme del sapere: saggi, poesia, temi scientifici. Da bambino studiavo i minerali e prendevo la corriera per fare ricerche sui terreni in collina come un archeologo». Diffida degli apprendimenti schematici: «Se ci si specializza troppo la testa non si apre. Sono un anti-scolastico cresciuto con felice libertà». Era in seconda media quando Titone controllava i suoi abbozzi musicali, «ma senza impormi manuali. “Questo tuo passaggio funzionerebbe meglio se guardi i Notturni di Debussy”, mi diceva. Io oggi insegno nello stesso modo». A Siena, come a Boston e a Toronto, ha un approccio didattico molto differente da quello in uso nei conservatori: «Non si possono imparare a scuola la grammatica e la sintassi, e poi sentirsi poeti. Perciò parto dal linguaggio dei grandi compositori: solo analizzando in profondità le loro partiture si assorbiranno certe caratteristiche».
Durante il suo apprendistato, confessa, è stato vittima di «alcune malattie della musica contemporanea, dall’aleatoria al grafismo, per poi trovare la mia strada, senza ideologie né filiazioni». Prima di approdare a Città di Castello ha vissuto sia a Roma, «dove ho fatto anche il copista per Ricordi», sia a Milano, «dove mi diedero un posto al conservatorio per chiara fama, poiché avevo già debuttato alla Scala. Mi è successo tutto in anticipo». Oggi ha al suo attivo più di un centinaio di cd e ha composto varie opere liriche, con una sensibilizzazione progressiva per l’uso della voce: «Via via ho compreso che il mio modo di usarla non era caratterizzato come negli strumenti, e ho messo a punto un mio stile vocale utile ai lavori teatrali». Ama il racconto scenico e gli piace ispirarsi alle passioni nere e antiche: la follia di Torquato Tasso, il suicidio di Borromini, il principe omicida Gesualdo da Venosa. Rievoca e trasforma con partecipazione emotiva Mozart, Scarlatti o Gesualdo, filtrando dentro un linguaggio nuovo, ombroso e poetico, la sua fiducia nella musica del passato. L’ultima figura a cui ha voluto dedicarsi è il compositore secentesco Alessandro Stradella, che rappresenta lo spunto dell’opera Ti vedo, ti sento, mi perdo, commissionatagli dalla Staatsoper di Berlino e dalla Scala. Sarà il teatro milanese ad accoglierne il debutto scenico il 14 novembre. Il soggetto «riguarda il potere di seduzione della musica e l’erotismo». D’altronde il corpo è sempre al centro dell’arte di Sciarrino, che pare come stupefatta di fronte ai miracoli della natura e dei tesori sensoriali: «Io non prescindo mai dalla fisicità del suono».