Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2016
Il decennio perduto del credito
Dieci anni dopo quel 12 ottobre 2006, quando i consigli di amministrazione di Intesa e SanPaolo Imi approvarono la fusione tra i due gruppi, qual è lo stato del settore del credito in Italia? Quella stagione ha mantenuto le sue promesse? Gli stakeholder (azionisti, clienti, dipendenti) ne hanno tratto giovamento?
L’ondata di concentrazioni che hanno ridisegnato il settore bancario in Italia tra il 2006 e il 2007 non ha creato solo il primo gruppo nazionale. Per restare ai maggiori, i merger and acquisition riguardarono Unicredito e Capitalia con la nascita di UniCredit, la costituzione di Ubi da parte di Bpu e Banca Lombarda, la realizzazione del Banco Popolare da parte di Popolare di Verona e Novara e Bpi, sino all’ultima grande operazione, l’acquisizione – esiziale – dell’AntonVeneta da parte di Monte dei Paschi. Ma gli effetti sistemici furono ben più imponenti. Le regole Antitrust, con il divieto di superare le soglie di concentrazione territoriali sul fronte della raccolta e degli impieghi, condussero a un ridisegno profondo della mappa della rete degli sportelli su base provinciale, con trasferimenti tra banche che riguardarono centinaia di filiali, migliaia di lavoratori e milioni di clienti. La redistribuzione delle partecipazioni finanziarie – e dei loro pesi nell’azionariato dei gruppi coinvolti – trasformò le alleanze tra soci italiani ed esteri e consegnò nelle mani di operatori stranieri alcuni gruppi di dimensioni minori.
Le prospettive erano improntate a una visione basata su efficientamento e innovazione. Ma l’architrave dei Return on equity a doppia cifra che reggeva quei progetti era destinata a spezzarsi, di lì a breve, prima per la crisi finanziaria globale innescata dai mutui subprime e dal crack di Lehman Brothers, poi per il double dip della recessione italiana che faceva esplodere le sofferenze. La spada di Damocle da 200 miliardi, che ipoteca la redditività del settore per anni, nasce dal crony capitalism dei consigli di amministrazione, come dimostrano le statistiche sul rapporto dimensionale tra affidamenti e crediti inesigibili della Banca d’Italia – la cui Vigilanza ha segnato gravi défaillances –.
Alle prese con conti economici sempre più penalizzati, le banche si sono affidate ad advisor e consulenti spesso interessati più alle proprie parcelle milionarie che non alla sostenibilità dei loro progetti. Piani industriali sono fatti e disfatti di continuo: prima con reti abnormi di sportelli, poi con la loro chiusura; con modelli societari – e cda – policentrici, poi ricentralizzati; con sistemi multicanale che hanno cancellato le mansioni dei bancari senza sostituirle. I dipendenti sono stati prepensionati a decine di migliaia, a costi crescenti e interamente autofinanziati. I clienti hanno visto migliorare inizialmente condizioni e servizi ma ora in molti casi si vedono presentare (anche sulle spese dei conti correnti) l’onere dei salvataggi “di sistema”. Gli azionisti pagano crolli anche superiori al 90%, gli obbligazionisti subordinati non dormono tranquilli (nel placido sonno della Consob). Chi si è salvato? Le banche che hanno fatto meno finanza e più credito: non agli “amici degli amici” ma all’economia reale. Gli istituti che non hanno venduto derivati persino a conventi e artigiani ma che hanno lavorato sui bisogni concreti della clientela. La lezione? Non c’è nulla di più nuovo che tornare all’antico: vale anche in banca.