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 2016  ottobre 14 Venerdì calendario

Sul premio Nobel a Bob Dylan

Goffredo Fofi per Il Sole 24 Ore
Non è stato solo un musicista, Bob Dylan, e dei più grandi del Novecento se si rinuncia all’odiosa distinzione aristocratica di alto e basso, e si guarda ai generi detti appunto “bassi” o minori con il dovuto rispetto per chi ha saputo cantare pene e gioie, disperazioni e speranze della gente appunto “bassa”. Ha anche scritto un brutto romanzo, Tarantola (1971), che faceva il verso a Joyce, e una autobiografia invece molto bella, Cronache (2004), e nelle sue canzoni non ha lesinato le citazioni dalla Bibbia a Shakespeare, da Rimbaud a Dylan Thomas (a cui rubò il nome trasformandolo in cognome) e ovviamente da Ginsberg a Kerouac riconoscendosi parte della loro banda. Ma il Nobel per la letteratura? I giurati del Nobel sono uomini come tutti, anzi intellettuali come la grande massa degli intellettuali, che non difettano certo, come tutti, di prevenzioni e presunzioni. In passato, tra tanti premi ben dati, hanno premiato scrittori di mezza tacca ma anche non scrittori.
Non conosco lo statuto del Nobel, ma presumo che l’idea di letteratura vi sia molto generosa e vaga, se si è potuto premiare in passato storici e filosofi, ma anche politici come Churchill che hanno secondariamente usato la penna e la macchina da scrivere e gente di spettacolo come Fo, che anche lui ha scritto ma i cui testi non sono eccelsi.
Del Nobel a Dylan si è parlato spesso in passato, e c’è da scommettere che a farglielo vincere sia stata l’insistenza dei membri di una generazione che è cresciuta negli anni sessanta ed è legata ai miti culturali di quegli anni, alla “musica di fondo” che li accompagnava. E in questo senso, le canzoni di Dylan sono storia, fanno parte della storia della cultura del Novecento, e più di quella che era considerata un tempo minoritaria e generazionale, e che è presto diventata anche di massa per l’influenza che ha avuto nella formazione del gusto dei “grandi numeri”. Sono storia e sono anche poesia, perché non è solo la musica che conta nelle sue canzoni, conta anche quello che dice e le parole che ha trovato per dirlo, la tensione e il ritmo che ha saputo dare al suo pensiero. È forse questo ad aver convinto i giurati del Nobel, il testo oltre la musica? Non si tratta affatto di discutere della genialità e della rappresentatività dell’arte di Dylan. Ma, ci si chiede allora, perché non inventarsi, i signori del Nobel, un premio per la cultura popolare e di massa nelle sue varie forme, o per la musica, anche quella non “alta”. Chi o cosa glielo impedisce? O per il cinema? O per le arti figurative? Sarebbe solo giusto, perché tra i grandi artisti del Novecento quanti lo avrebbero meritato, ben più eccelsi di tanti scrittori laureati dall’Accademia svedese, mettiamo, ma i nomi potrebbero essere tanti, da Dreyer a Bunuel, da Fellini a Kubrick, da Bresson a Wajda, da Kurosawa a Satyajit Ray, o da Berg a Shostakovic, da Stravinskij a Ravel, o da Picasso a Klee, da Morandi a Kiefer, eccetera, eccetera.
Se gli accademici vogliono aprirsi ad altre forme di espressione, osino farlo mettendo in discussione lo statuto del premio, i pregiudizi originari del finanziatore (un produttore e mercante di dinamite, non dimentichiamolo) e dei suoi consulenti, e aprirsi a una visione più alta, necessaria e “moderna” di quella, diciamo così, autobiografica, che li porta a premiare un attore perché li ha divertiti e un autore di canzoni (spesso sublimi!) per via dei loro sogni e illusioni di giovinezza. Lunga vita a Bob Dylan, con l’augurio ai padroni del Nobel di far chiarezza sul loro compito e le sue finalità.

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Luigi Sampietro per Il Sole 24 Ore
Parce sepulta, viene da dire pensando alla letteratura nel giorno in cui l’Accademia di Svezia ha assegnato il Nobel al mio pur bravissimo e amatissimo Bob Dylan, il quale, dopo il premio Pulitzer, nel 2008, ha ottenuto questo riconoscimento per avere creato « nuove espressioni poetiche nella tradizione della canzone americana ».
Ed è, questo, un segno dei tempi sul quale è il caso di spendere qualche parola. Per il poco che so, la musica esiste da sempre ma non così la letteratura, che ha a che a che fare con la parola scritta. A metà strada si colloca la poesia, che a un certo punto deve aver preso ad accompagnare la stessa musica con le sue sillabe concatenate. Ma da quando è stato inventato l’alfabeto e, soprattutto, da quando è stato istituito il premio Nobel (1901), la parola “letteratura” ha sempre indicato una cosa che sta tra due copertine, in prosa o in versi (quasi sempre), in forma narrativa lirica o drammatica, e mai avremmo voluto assistere a quel che sta succedendo attorno a noi e di cui il premio a Dylan, meritato come e forse più di altri tra quelli assegnati nel corso degli ultimi cent’anni, è un ennesimo segnale. Un apocalittico fine dell’interesse per la letteratura sic et simpliciter. Non si spiegherebbe altrimenti questo sforamento in un ambito, come quello della canzone, per i quali esistono fior di premi specifici, e come se – raschiato il fondo del barile – non ci fosse nel mondo qualcuno che nel corso dell’ultimo anno non abbia scritto un’opera pregevole e raccomandabile.
Concorsi letterari, fiere del libro e sagre della carta stampata resistono alla bufera, e però le librerie chiudono e sempre più spesso mi viene richiesto di partecipare in qualità di prefica prezzolata a qualche cerimonia funebre – leggi: tavola rotonda – sul cosiddetto lettore estinto. Il mondo, va da sé, non si ferma – ci mancherebbe! –, ma così come in treno o in tram da anni non vedo quasi più nessuno con un libro in mano, e nelle stazioni della metropolitana e in molte stazioni ferroviarie l’intrattenimento sonoro è ossessivo, molto spesso mi trovo a ripetere, non riuscendo a concentrarmi nemmeno sulle pagine sportive del giornale, le parole di quell’amore di gioventù che è stata Mafalda: « Fermate il mondo: voglio scendere!».
So benissimo che il baccano è un segno di vita, e che le canzoni – parole e musica – sono una forme d’arte raffinata, ma poiché ho l’occasione di ribadirlo, ricordo anche che la letteratura ha una funzione insostituibile. Si può anche smettere di scrivere libri, ma ce ne sono tanti in biblioteca (sempreché qualcuno non provveda ad eliminarli, come è avvenuto nell’antica Alessandria) che possono bastare alle nostre letture fino alla fine dei tempi. Chiuse in quello scrigno che è il volume cartaceo (e, oggi, il lettore di e-book), le parole rimangono ferme e sono i nostri occhi e il nostro pensiero a doverle inseguire nello spazio bianco della pagina, che a sua volta rappresenta il silenzio dell’assoluto da cui emergono. Non siamo trasportati da attori o musicisti, come avviene invece a teatro o al cinema, durante la recita di un testo o di una canzone, e siamo noi stessi a dettare i tempi della lettura.
La letteratura, che è la nuda e cruda parola scritta, appartiene all’ambito della contemplazione e dell’avventura, e chi legge è un viandante che percorre il mondo in compagnia di se stesso. Ogni tanto si ferma, con il dito tra le pagine, e guarda nel vuoto; parla, in silenzio, con se stesso; ripensa a quel che ha visto con gli occhi della mente, e riprende il cammino spinto dal desiderio di conoscere meglio. E per quanto siano più efficaci e dirette – persino meno faticose e più gratificanti – altre forme d’arte, è leggendo un libro che la parte più vera e profonda di noi riesce davvero a guardarsi allo specchio.

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Gino Castaldo per la Repubblica
Un colpo di rullante può cambiare la vostra vita? È successo, di sicuro, almeno una volta, quando Bruce Springsteen ascoltò il celebre incipit di Like a rolling stone. Aveva sedici anni, era in automobile con la madre e dalla radio uscì la voce aspra e tormentata di Bob Dylan: «Era come se qualcuno avesse aperto a calci la porta della tua mente» raccontò in seguito ed è una sensazione che hanno provato in molti. A quei tempi succedeva. Qualcosa di simile l’ha raccontata Fernanda Pivano che a quel tempo era in America, in compagnia di Allen Ginsberg e anche loro provarono quella strana epifania. Ginsberg era commosso, commentò come fosse straordinario ascoltare alla radio un pezzo della grande letteratura americana. Perché questo è stato Dylan: un sovversivo che ha usato la musica, più precisamente la lingua del folk, almeno agli inizi, per inventare un nuovo modo di rappresentare la realtà.
Di certo da quel momento la canzone non è stata più la stessa. In una vertigine di terremoti generazionali, slanci, scoperte, nuove utopie, le parole di Bob Dylan cominciarono a rotolare per il mondo, a germogliare ovunque, ad aprire finestre, a partire da affermazioni ingenue ma travolgenti come Blowing in the wind (qualcuno mai riuscirà a rispondere alle domande che continuiamo a farci?), ma poi fu subito Masters of war. Erano tutti bravi a dire facciamo la pace, ma Dylan no, era diverso, precedeva, prefigurava, nel testo di Masters of war non si limita a esprimere disprezzo per i “padroni della guerra”, dice di volerli morti, e che sarebbe andato sulle loro tombe a sputarci sopra, parole di fuoco, enormi, di quelle che incendiano gli animi. Ma era anche il primo ad avvertire: The times they are a- changin’, i tempi stanno cambiando, e lo faceva con una canzone che era già in sé un segno del cambiamento perché nessun altro faceva canzoni così.
Sogni, nuove utopie, la paura del nucleare, tutto entrava in questo nuovo universo, comprese le relazioni interpersonali come Don’t think twice it’s alright, il senso e la dignità della memoria, la storia, i frammenti sparsi di mondi letterari e cinematografici frullati in un nuovo melange degno della pop art. Misurare Bob Dylan con i parametri della letteratura è arduo, in questo hanno ragione quelli che in queste ore stanno polemizzando sul Nobel, ma non tanto per questioni di genere, di stile, di mondi espressivi, quanto perché stiamo parlando di una materia viva, palpitante, che è uscita dalla mente del suo creatore per diventare esperienza, vita vissuta, sentimento e pensiero di milioni di persone. Una proporzione talmente unica, e per certi versi spaventosa, da aver indotto lo stesso Bob Dylan, molto presto, a scappare, a smontare il suo ruolo, a rifiutare la leggenda che già negli anni Sessanta gli stavano costruendo intorno. Il pifferaio della rivoluzione, dicevano, enormi platee di militanti per i diritti civili che lo adoravano, e lui cambiò, sempre in direzione ostinata e contraria, come avrebbe detto De Andrè, si mise a scrivere cose come Mr. Tambourine man, enigmi poetici, rifrangenti giochi di specchi, complicò ancora di più i suoi versi, meravigliosamente sfuggenti, vedi My back pages, Gates of Eden, poi ci mise l’elettricità e formalizzò la nascita del rock con Like a rolling stone, testo straordinario, un piccolo romanzo sintetizzato in una canzone, che parlava di una caduta, di una donna, forse una borghese, che perdeva i suoi privilegi e rovinava nell’abisso. Se qualcuno davvero dovesse ancora dubitare del valore “anche” letterario dei suoi testi andasse a leggere, in questo caso davvero basta leggere, i versi di Visions of Johanna o di Desolation row. Visioni dentro visioni dentro altre visioni, con livelli di complessità e di raffinatezza poetica mai percepite prima in una canzone, ma per capire davvero il mistero Dylan, bisogna andare dove lui non voleva che si andasse, ovvero in quei mesi del 1966, quando finalmente la sua lingua dilagava nel mondo, la musica ribolliva di nuove idee, una intera nuova generazione di autori, da lui influenzati, stava riscrivendo le regole della musica popolare, lui pensò bene di sparire. Con la scusa di un incidente di moto, mai realmente provato, riuscì a stare diciotto mesi fuori da tutto, invisibile, chiuso nel suo rifugio di campagna, e quando ne uscì fuori nel fuoco del 1968 lo fece con un disco sommesso, spoglio, e perché si capisse che dentro c’era un capolavoro come All along the watchtower ci volle Jimi Hendrix. Già da allora Dylan si condannò a una perenne mobilità, a una fuga costante da stereotipi e luoghi comuni, e lo confermò quando qualche anno fa uscì la sua autobiografia, Chronicles – Volume 1, a cui ovviamente non ha mai fatto seguito un
Volume 2. Tutti pensarono: finalmente, ora sapremo, e invece niente, Dylan ha pensato bene di raccontare tutto quello che gli pareva, e per giunta con una prosa sfavillante, ma di sicuro nessuna delle cose che da decenni tutti i fan avrebbero voluto sapere.
Per non dire delle sue performance live, originali ma inquiete, mai celebrative, fino a momenti diventati proverbiali in cui le sue canzoni più note le storpiava al punto da renderle praticamente irriconoscibili. Ma a scrivere canzoni superlative ha continuato, non con lo stesso febbrile ritmo degli anni Sessanta, un ritmo quasi inaudito a ripensarci oggi, ma comunque elevato: Simple twist of faith, Knockin on heaven’s door, Hurricane, Jokerman, decine e decine di canzoni che compongono (Beatles a parte) il più straordinario canzoniere dei tempi moderni, da oggi degno di un premio Nobel.

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Giuseppe Antonelli per il Corriere della Sera

The times they are a-changin’. Così, alla fine, è successo. Proprio nel giorno in cui è morto Dario Fo, l’Accademia di Svezia ha dato un nuovo Nobel alla voce. Alla parola detta: o meglio, in questo caso, cantata.
The answer is blowin’ in the wind
Tanta poesia antica, va detto, era concepita o recitata con un accompagnamento musicale. Ma il premio dato a Dylan ratifica qualcosa che ha cominciato ad accadere mezzo secolo fa. Quando, verso la metà degli anni Sessanta, la canzone ha avuto l’ardire di presentarsi non solo come nuova poesia popolare (o pop-orale) ma anche come nuova poesia civile. Secondo un’inchiesta svolta nel 1965 dalla rivista «Esquire», per gli studenti delle università americane le tre persone più importanti del momento erano John Kennedy, Bob Dylan e Fidel Castro. Nel dicembre dello stesso anno, un titolo del «New York Times» recitava: «Bob Dylan è l’erede di Faulkner e di Hemingway?». Se il riferimento era al fatto che i due avevano vinto il premio Nobel, la risposta ha smesso di soffiare nel vento.
Mr. Tambourine man, play a song for me
Parlando di Joey, in un’intervista del 1991, Dylan diceva: «Secondo me, non per vantarmi, questa canzone è come una ballata omerica». Il Nobel di ieri sovverte un paradigma; rende definitivamente vecchia la distinzione (così com’eravamo abituati a concepirla) tra cultura alta e cultura bassa. Anche da noi, d’altra parte, da almeno due generazioni Mister Tamburino ha sostituito nell’immaginario collettivo il Tamburino sardo del libro Cuore. E i ragazzi sanno a memoria i versi di Knockin’ on Heaven’s Door molto più di quelli del paradiso dantesco. Anche la poeticità criptica o surreale di certa canzone d’autore italiana si dovrebbe – secondo alcune ricostruzioni – non alla nostra poesia novecentesca, ma al modello di Bob Dylan. Lui che a sua volta aveva fatto proprio quello di tanti altri poeti, tra cui Eliot e Pound che in Desolation Row discutono sul ponte di comando del Titanic.
Like a Rolling Stone
Così la pensava, nel 1978, anche Francesco Guccini, che – contraddicendo «i critici snob intellettual-liceal-universitari» – riconosceva in De Gregori non un linguaggio ermetico o montaliano, ma «dylaniano». Un’influenza diventata peraltro esplicita, lo scorso anno, con la pubblicazione dell’album-tributo Amore e furto. De Gregori canta Dylan. Lavoro nel quale il cantautore romano si tiene a debita distanza dalla ponderosa tradizione esegetica ormai stratificata sui testi di Dylan. Per i commentatori che in ogni frase riconoscono una provenienza biblica, talmudica o cabalistica è stata già coniata – d’altronde – la definizione di «Bobolatri». Sono passati più di quarant’anni da quando Fernanda Pivano scriveva che «al di là dello stellismo, al di là dell’industria discografica, al di là perfino della vanità personale o del culto della personalità, Bob Dylan non fu soltanto un cantante e un chitarrista, ma fu soprattutto un poeta e un profeta». Quel passato remoto era già pieno di nostalgia: «Once upon a time you dressed so fine»…

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Paolo Mastrolilli per La Stampa
«È un grande artista, se lo merita». Don DeLillo era in cima alla lista degli scrittori americani candidati al premio Nobel per la letteratura, perciò fa un po’ impressione sentirlo parlare così.
Eppure l’autore che con Philip Roth veniva considerato uno dei grandi favoriti alla vigilia, non esita un istante a elogiare la decisione dell’accademia svedese, quando lo raggiungo nella sua casa di New York.
Le sembra giusto dare il premio Nobel per la letteratura a un cantante?
«Assolutamente sì, in questa decisione non c’è nulla che sia un problema per me. Ascolto la musica di Bob Dylan da decenni, e penso da sempre che sia un grande artista».
Su questo punto molti sono d’accordo con lei. Però un conto è dire che Dylan è un grande artista, un altro è affermare che merita di essere premiato dal Nobel nella categoria riservata agli scrittori e ai poeti. Su quale base lo difende?
«Io penso che le sue canzoni siano poesia, tanto nella musica, quanto nei testi. Possono essere ascoltate, ma anche lette e analizzate attraverso i loro versi».
Cosa distingue una canzone da una poesia?
«Nel caso di Bob Dylan praticamente nulla, perché oltre alla bellezza del verso, c’è anche la comprensione, l’interpretazione e la rappresentazione della cultura che descrive».
Nel 2005 lei partecipò ad una discussione con Greil Marcus sul documentario di Martin Scorsese «No Direction Home», che si tenne al film festival di Telluride, in Colorado. In quella occasione si parlò anche del suo romanzo «Great Jones Street», dove il personaggio di Bucky Wunderlick sembra ispirato proprio a Dylan. Lei disse che il genio del rock era la capacità di interpretare la propria epoca, che Dylan era diventato un raro caso di completa fusione fra l’uomo e l’artista, e fece un esempio di quella che considera la sua poesia nella canzone «Like a Rolling Stone»: «È un’intera età lunga quarant’anni, incanalata attraverso quella canzone. E poi c’è quel ritornello, “How does it feel”, che in quattro parole trasmette ciò che pochi scrittori, poeti, registi o musicisti possono fare. È una cosa straordinaria». Questa, secondo lei, è la ragione per cui Dylan merita il Nobel per la letteratura?
«Esatto. Perché è un grande artista, è un poeta, ed è stato capace di raccontare e interpretare la sua epoca come pochi altri autori».

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Alessia Rastelli per il Corriere della Sera
Il premio Nobel per la Letteratura viene assegnato, secondo quanto lasciò scritto nel suo testamento l’ideatore Alfred Nobel (1833-1896), a chi «nel campo della letteratura mondiale si sia maggiormente distinto per le sue opere in una direzione ideale». È lecito, dunque, conferirlo a un cantautore? Diversi sono gli scrittori rimasti spiazzati ieri, in varie parti del mondo, all’annuncio che il prestigioso riconoscimento era stato dato a Bob Dylan, fino a esternazioni di irrisione, polemica, rabbia. Dietro, non solo la delusione di presunti candidati, ma anche un’antica domanda: che cos’è letteratura? Solo narrativa, poesia (e, al massimo, testi teatrali), oppure la categoria può allargarsi?
Il confine non si espande per Irvine Welsh, lo scrittore scozzese di Trainspotting , che, con linguaggio colorito, prende posizione su Twitter: «Sono un fan di Bob Dylan ma questo è un premio a base di nostalgia mal concepita», attribuito da «hippy rimbambiti che parlano a vanvera». Consegna ai social il suo disappunto anche uno dei favoriti della vigilia, il giapponese Haruki Murakami: «Non dispiacerti per te stesso. Solo gli stronzi lo fanno» scrive, citando dal suo romanzo Norwegian Wood . Mentre è ironico Jonathan Franzen, parlando al «Guardian»: «È un’amara delusione per chi sperava vincesse il cantante Morrissey».
Dall’Italia interviene Alessandro Baricco: «Dylan è un grandissimo — premette — ma, per quanto mi sforzi, non riesco a capire che c’entri con la letteratura». Secondo l’autore, da poco uscito con Il nuovo Barnum — pubblicato da Feltrinelli, editore italiano di Dylan —, non regge neppure il paragone con un altro Nobel meno tradizionale e scontato come quello assegnato, nel 1997, a Dario Fo, scomparso proprio ieri e finora ultimo italiano a ricevere il premio. «La situazione è diversa perché — spiega Baricco — per quanto riguarda la scrittura del teatro, non ho bisogno di sforzarmi tanto per capire che c’entra con la letteratura». Ma premiare Bob Dylan, prosegue, «è come se dessero un Grammy a Javier Marías perché c’è una bella musicalità nella sua narrativa». Se seguiamo questo ragionamento, conclude, «allora anche gli architetti potrebbero essere considerati poeti».
Torna sul Grammy (tra i premi più importanti nella musica) la scrittrice statunitense Jodi Picoult: «Sono felice per Bob Dylan — dice su Twitter — ma questo vuol dire che io potrei vincere un Grammy?». Critiche anche dalla Francia. «Il Nobel a Dylan è sconfortante — attacca Pierre Assouline, membro dal 2012 del cenacolo letterario dell’Académie Goncourt, che assegna l’omonimo premio —. Trovo l’Accademia svedese ridicola, ha deriso gli scrittori».
Qualcuno però non la pensa così, e crede che la letteratura possa essere anche altro. Salman Rushdie racconta che ha passato la giornata di ieri riascoltando Mr. Tambourine Man. «Dylan è il brillante erede della tradizione dei grandi bardi. Ottima scelta — commenta —, le frontiere della letteratura si allargano». Anche Philip Pullman si augura che d’ora in poi il Nobel guarderà a un insieme più ampio di scritture. E il linguista Tullio De Mauro dice che «è giusto allargare i confini del Nobel dalla letteratura accademica, patinata, nobile, a quella non meno nobile ma di grande circolazione e popolarità». Soddisfatti anche diversi autori che con Dylan condividono l’essere americani. E che allargano il focus dalla teoria letteraria all’attualità. Tra loro Stephen King, che parla di «una grande scelta in una stagione di fango e tristezza», e Joyce Carol Oates, che ne approfitta per attaccare Donald Trump. «Bob Dylan è una benvenuta pausa/interregno che interrompe una cascata di buffonate di T...p» dichiara la scrittrice, anche lei via Twitter.