la Repubblica, 14 ottobre 2016
Le economie emergenti si sono paralizzate
ROMA Grande Motore si è fermato. Un crollo dell’export cinese delle dimensioni registrate a settembre è, dicono le prime analisi, uno sbalzo anomalo, ma il rallentamento, vistoso, era già in atto ed è il segnale che un’era si è conclusa. Dalla fine degli anni ‘90 fino alla crisi del 2008, l’economia mondiale ha marciato a ritmi elevatissimi sulla cinghia di trasmissione che scaricava l’export cinese sui consumi americani. Esplosa la bolla dei subprime, il consumatore americano superindebitato è diventato parsimonioso e la Cina si è imbarcata in una lunga e faticosa transizione da un’economia votata alle esportazioni ad un’altra alimentata dai consumi interni. Ma il consumatore cinese non è quello americano e la svolta ancora non c’è stata. Il risultato è che l’economia mondiale è ancora alla ricerca di un nuovo modello di crescita. Può darsi che non trovi nulla di paragonabile alla spinta dei primi dieci anni del secolo. Molti economisti già evocano lo spettro di una Stagnazione Secolare.
Milioni di barili fermi nella pancia di superpetroliere alla fonda, in attesa di compratori che non arrivano. Giganti del commercio via container che riducono drasticamente la flotta o vanno in bancarotta. Il commercio è il termometro più sensibile di una economia mondiale che non riesce a decollare. La Stagnazione Secolare magari è lontana, ma quella in corso la rappresenta bene. Il Fondo monetario ha appena ridotto al 3,1% le aspettative di crescita per quest’anno e ha limato anche quelle del prossimo. Il suo ex capo-economista, Olivier Blanchard, che non fa parte dei catastrofisti, definisce «dura» la situazione attuale di bassa crescita e bassi tassi d’interesse, dove gli stimoli delle banche centrali sembrano essersi esauriti. I motivi di una espansione, a nove anni dallo scoppio della crisi finanziaria, ancora deludente sono, peraltro, facilmente elencabili. L’incertezza determinata dalla Brexit, una crescita americana ancora inferiore alle attese e, soprattutto, la paralisi delle economie emergenti, a cominciare dai suoi giganti: Cina, Russia, Brasile. Tre quarti del rallentamento della crescita dell’ultimo anno risale, secondo il Fmi, ad una caduta a picco degli investimenti, che tradizionalmente vengono dai paesi in via di sviluppo. Infatti, nel 2015, quasi tutto l’impulso al commercio mondiale è venuto dai paesi avanzati: scarso, dunque, visto che gli stessi paesi attraversano una congiuntura assai pallida. La conseguenza sono previsioni di un aumento del commercio mondiale, per quest’anno, del 2,3% e del 3,8 l’anno prossimo.
Un commercio mondiale che si espande del 3% l’anno vuol dire che il volume degli scambi procede ad una velocità che è la metà dei decenni precedenti. E non basta un’economia globale ai limiti del ristagno a spiegare questo andamento così faticoso. Perché il rallentamento è più vistoso di quanto dicano, a prima vista, i dati. Fra il 1985 e il 2007, sull’onda della globalizzazione, il commercio mondiale si è regolarmente sviluppato ad un ritmo doppio di quello dell’economia. In altre parole, c’erano sempre più importazioni nelle economie dei singoli paesi. Negli ultimi quattro anni, il commercio è invece cresciuto allo stesso passo del Pil mondiale: l’internazionalizzazione delle singole economie si è, dunque, fermata. Questa è la novità. Le esportazioni cinesi ne stanno pagando il prezzo più di altre, ma è uno dei meccanismi chiave della globalizzazione che sembra essersi bloccato. Il grosso dell’espansione del commercio mondiale degli anni passati, infatti, si basava sulle catene di valore: processi produttivi sparpagliati in parecchi paesi. Vedi l’iPhone, assemblato in Cina con componenti provenienti da una dozzina di paesi diversi. Il traffico di prodotti intermedi lungo queste catene di valore ha cessato di crescere, dicono i dati. O perché si è arrivati ad un limite di efficienza. O perché l’emergere di riflessi protezionistici ne limita la convenienza.