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 2016  ottobre 14 Venerdì calendario

Serie A sul lettino

Non è solo gambe e fiato, lo sport è testa, idee, parole, è motivazione, concentrazione, autostima: vince chi ne ha di più, a volte anche se ha meno talento. Ecco perché chi non ne ha si fa aiutare. C’è stato un tempo in cui il mental coaching si faceva con i cori alpini della Grande Guerra: Vittorio Pozzo, vincente c.t. degli anni Trenta, arringava i suoi giocatori facendo cantar loro la Leggenda del Piave negli spogliatoi, prima delle partite. Un antesignano del mestiere era anche Biagio Cavanna, il leggen-dario massaggiatore cieco di Fausto Coppi. Ma erano altri tempi, altro sport.
Oggi gli atleti che s’affidano a specialisti dell’allenamento mentale sono sempre più, e non solo nel calcio: dalla Kostner alla Pellegrini, è un’esperienza che provano in tanti. Poi magari non lo dicono, ma questo è un altro discorso. «In realtà rispetto a Stati Uniti, Germania, Francia siamo ancora un po’ indietro» spiega Stefano Tirelli, docente di Tecniche Complementari Sportive alla Cattolica, che ha lavorato su Beckham, Terry, Essien, Gerrard. È stato lui ad aiutare il terzino del Milan, Mattia De Sciglio: «Era a un passo dalla depressione, si sentiva in colpa se usciva con la fidanzata. Soffriva per le critiche. Abbiamo cominciato con un paio di sedute a settimana, siamo andati alla scoperta delle potenzialità motivazionali e abbiamo sbloccato i livelli energetici del sistema dei meridiani della medicina cinese». Secondo un’indagine di qualche anno fa della Fifpro, il sindacato mondiale dei calciatori, un giocatore su tre soffre di depressione: casistica estrema ma significativa, che spiega come ad alti livelli le pressioni sono spesso insostenibili. I cori alpini oggi forse non basterebbero, e così si va dallo specialista, rigorosamente privato. Scelta libera, personale, non imposta dalla società. Si fa ma non si dice: la gran parte dei giocatori continua a parlarne poco volentieri, generalmente proprio per evitare di farlo sapere al club: è anche la ragione per cui la figura dello psicologo negli staff medici in Italia non ha mai preso realmente piede. Il mental coach spesso non è uno psicologo, e proprio per questo viene scelto con più facilità dall’atleta.
Eppure qualcuno che esce dal coro e racconta il suo buio si trova, tipo il difensore interista Andrea Ranocchia che in un’intervista al Corriere pubblicata ieri ha spiegato come da tre mesi abbia un supporto psicologico: «Lì ho imparato che nella vita niente è irrimediabile, ora vedo il futuro in modo positivo». Non sempre per fortuna c’è di mezzo un problema serio: sempre più spesso si cerca un aiuto anche solo per rendere di più sul campo. Si comincia presto, anche a sedici anni. A confermarlo è Roberto Civitarese, che lavora con molti giocatori di serie A fra cui Saponara, Petagna, Paloschi, Pavoletti.
Ha cominciato nel 2009, ha gestito quasi 100 calciatori, ora ne segue una dozzina con la tecnica della Pnl, la programmazione neurolinguistica: «Fissiamo un obiettivo sul calciatore e ci concentriamo su ciò che bisogna cambiare per ottenerlo». Una metodologia unica non esiste, ogni specialista si crea la sua in base all’esperienza. C’è chi come Piero Serpelloni ad esempio parte dai massaggi muscolari e arriva al recupero motivazionale: fra i suoi amici, come li chiama lui, ci sono Pirlo, Destro, c’era Inzaghi e c’è ancora Shev-chenko, del quale è collaboratore nella Nazionale ucraina.
Da Gilardino a Chiellini, da Candreva ad Hernanes, gli esempi sono moltissimi. Per sette anni Leonardo Bonucci ha lavorato con Alberto Ferrarini, uno dei guru della materia, che fin dai tempi del Treviso gli faceva mangiare caramelle all’aglio, «come i soldati dell’antichità». C’è però chi la vede in maniera un filo diversa, come Marisa Muzio, psicologa dello sport ed ex nazionale di nuoto: «L’atleta non ha bisogno d’essere motivato: l’importante è sviluppare in lui quella consapevolezza e fiducia che gli permetta di esprimere al meglio il suo potenziale. Sarà poi lui a trovare in sé le motivazioni per andare oltre».