la Repubblica, 13 ottobre 2016
L’amaca di Michele Serra
Un vecchio amico pioniere del biologico (aveva vent’anni quando prese la via della terra) mi telefona affranto dopo la puntata di “Report” nella quale si smascheravano un paio di truffe (vere, e gravi) commesse nel nome, usurpato, del bio. «Non una parola sulla passione, la fatica, l’affetto per i campi di molte migliaia di coltivatori e allevatori, soprattutto ragazze e ragazzi, piccole e medie aziende virtuose che ormai costituiscono massa critica, numeri importanti. Sembrava che “bio” fosse sinonimo di furbata o di crimine». Mi ha colpito l’uso del termine “affetto”, non tutti i lavori sono affettuosi, non tutte le attività economiche hanno come obiettivo la cura di qualcosa, in questo caso la terra e il cibo. Mi ha colpito, anche, il suo tono ferito. Così funziona il giornalismo, gli ho detto, punta lo sguardo sulle cose che non vanno e sui conti che non quadrano, azzanna l’errore, o almeno ci prova. Capita poi che nell’inseguire la preda urti anche vite e sensibilità di persone, per così dire, estranee ai fatti; o peggio vittime anch’esse, come è il caso dei coltivatori bio lesi dal danno di immagine prodotto da pochi imbroglioni. Per rasserenarlo ho anche aggiunto (non me ne voglia la corporazione della quale faccio parte) che le cattive notizie fanno molto rumore ma passano veloci come lampi. L’agricoltura ha tempi lunghi e la pazienza nel suo Dna, e il fatto che i media ne parlino poco forse, a conti fatti, non è un male.