Il Messaggero, 12 ottobre 2016
Come resistere all’anno nero del commercio
Sessantacinque navi. Forse ottanta. In poche ore, il 31 agosto scorso, si sono fermate in mare. I porti che dovevano accogliere il loro carico, 14 miliardi di dollari di merci stipate nei container, non hanno permesso l’accesso. L’armatore non poteva più garantire il pagamento delle tasse portuali, dei servizi, del rifornimento di carburante. Tre portacontainer sono rimaste fuori del porto di Long Beach, a Los Angeles. Solamente l’11 settembre una di queste ha avuto il permesso di entrare e scaricare. Il fallimento del gigante coreano Hanjin Shipping, responsabile dell’8% dei traffici transpacifici caduto sotto il peso di 5,5 miliardi di debito totale, è stato uno shock mondiale.
Un segnale. Uno dei tanti che le cose nel commercio internazionale non vanno per il verso giusto. I noli sono un esempio. Il Baltic Index, che misura il costo dei trasporti via nave delle merci, è ai minimi. Ma basta prendere l’ultima previsione della World Trade Organisation (Wto) per avere un’idea precisa. Qualche giorno fa ha tagliato le sue stime sull’andamento del commercio mondiale per quest’anno, dal 2,8% all’1,7%. Per la prima volta da quindici anni a questa parte, ha sottolineato il direttore generale Roberto Azevedo, l’andamento del commercio mondiale è più fiacco di quello del Pil. Cosa sta succedendo? Il Centro Studi di Confindustria, nel suo ultimo rapporto «Scenari Economici», sostiene che ci troviamo in un «new normal», una nuova normalità, riconducibile ad una serie di fattori tra loro connessi e in gran parte strutturali: la normalizzazione della crescita cinese e degli altri paesi emergenti, gli investimenti fiacchi, una minore dinamica della produttività, il rallentamento demografico. Tutto qui? No, in realtà negli scambi tra le nazioni si iniziano a far sentire sempre di più i sintomi preoccupanti di un crescente protezionismo alimentato dalle tensioni geopolitiche.
La Siria, innanzitutto, con la conseguenza delle ondate migratorie verso l’Europa che non si arrestano. E le reazioni nel Vecchio continente con i muri dell’Est Europa. Senza contare la crescente incertezza causata dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, i cui tempi e modi del divorzio restano ancora indefiniti. Le nazioni si chiudono in se stesse, e sempre più cercano di proteggere le loro industrie. Secondo il rapporto Global Trade Alert, il ricorso a nuove misure protezionistiche è aumentato del 50% nel 2015 sul 2014, registrando il livello massimo dall’inizio della rilevazione. E nei primi quattro mesi del 2016 il trend ha ulteriormente accelerato la corsa.
IL FALLIMENTO DEL TTIP
Gli accordi di libero scambio sono sempre più difficili, come dimostra lo stallo nelle trattative per il Ttip, il trattato tra Stati Uniti e America. Dalle tensioni geopolitiche «i movimenti nazionalistici e populistici ne traggono nuova linfa, mentre la voglia di spesa si affievolisce», scrive ancora il Centro Studi di Confindustria. Ma soprattutto se la crescita mondiale rallenta «significa che nessuno può far conto sul traino degli altri per uscire dal proprio stallo». Dunque servono nuove politiche per la crescita, soprattutto nell’Eurozona.
Ma il dilemma è che tipo di politiche in un contesto, quello europeo, in cui gli spazi di bilancio, Germania a parte, sono ristretti? La risposta italiana, declinata dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, è di spendere al meglio le poche risorse che ci sono. L’obiettivo è spingere i consumi interni e gli investimenti. Sono i due pilastri sui quali si reggono le nuove stime «programmatiche» del governo inserite nell’aggiornamento del Documento di economia e finanza e che saranno anche alla base della prossima manovra di bilancio. Secondo il Def il contributo delle esportazioni alla crescita del Pil il prossimo anno sarà negativo per 0,2 punti percentuali. Quello dei consumi interni sarà positivo per 1,2 punti. Significa che la crescita economica italiana sarà dell’1%. Senza interventi del governo i consumi crescerebbero soltanto dello 0,5% e il Pil si fermerebbe allo 0,6%. Ma quali sono le misure che saranno messe in campo per spingere consumi e investimenti? Sul primo versante ci sarà un aumento del 30% delle quattordicesime per i pensionati più poveri, quelli che hanno un assegno fino a 750 euro mensili. Poi una quattordicesima di circa 400 euro al mese sarà pagata anche a chi ha una pensione da 750 a 1.000 euro.
Ad aiutare i consumi sarà anche il mancato aumento dell’Iva dal 22% al 24%, un’operazione da 15 miliardi. Per le imprese ci sarà l’abbassamento dell’Ires, la tassa sui profitti, dal 27,5% al 24%, e l’arrivo dei super ammortamenti al 140% e gli iper ammortamenti al 250% per le imprese che investono. Segnali per ridare fiducia. L’ingrediente più importante della ripresa.