La Lettura, 9 ottobre 2016
Bono degli U2, la vedova di Jobs, il cofondatore di Microsoft e l’inventore di Facebook. Tutti investono sul genoma, per sconfiggere il cancro
La scommessa è affascinante: sconfiggere entro qualche decennio il cancro attraverso la medicina personalizzata che, combinando studio del genoma sequenziato e tecniche di Big Data, consentirà di mettere a punto un’infinità di farmaci su misura, tarati sulle caratteristiche dell’organismo di ogni singolo paziente e su quelle delle sue cellule tumorali. Alcune sperimentazioni in questo campo sono già state condotte con successo e per diverse patologie siamo ormai alla definizione di terapie standard. L’impresa sta attirando, oltre ai genetisti e agli scienziati di altri campi, anche celebrity della tecnologia e perfino dello spettacolo. L’ultimo a investire in questa missione è stato Bono degli U2 che finanzia, insieme con Laurene Powell Jobs, la moglie di Steve Jobs, la Color Genomics, una start up che offre per soli 249 dollari uno screening genetico semplificato, utile a scoprire le mutazioni associate ai tumori innescati da meccanismi ereditari.
Il cofondatore di Microsoft, Paul Allen, ha invece seguito un altro percorso. Ha destinato, attraverso la sua fondazione filantropica, cento milioni di dollari alla ingegnerizzazione di alcuni batteri capaci di sradicarne un altro micidiale: lo staffilococco aureo, resistente a molti antibiotici.
Le porte aperte 16 anni fa da Craig Venter e da altri scienziati con la mappatura del genoma rendono, infatti, percorribile una strada che va ben oltre la ricerca sul cancro: ora si possono combattere con molta più efficacia la sindrome di Down e la psoriasi, il diabete infantile e la vulnerabilità alle malattie cardiovascolari. L’asticella l’ha alzata qualche giorno fa il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg che, dopo aver annunciato l’anno scorso l’intenzione di donare, nel corso della sua vita, tutto il patrimonio che ha fin qui accumulato, ha varato, insieme con la moglie, la pediatra Priscilla Chan, la Chan Zuckerberg Science: un progetto da tre miliardi di dollari che ha come obiettivo esplicito la cura, la prevenzione o lo sradicamento di tutte le malattie entro il 2100. L’obiettivo è estremamente ambizioso, probabilmente irrealistico e la sua lontananza nel tempo lo rende abbastanza impalpabile, ma questa mobilitazione di energie private e pubbliche, con Barack Obama che ha a sua volta accelerato i progetti di sostegno federale alla medicina personalizzata, contribuisce a rafforzare la sensazione che questa nuova «geneconomy», l’economia che ruota attorno al genoma umano, ci allungherà la vita e alimenterà la crescita economica in un mondo alla disperata ricerca di un nuovo motore dello sviluppo dopo internet e la rivoluzione digitale.
Ma la genetica è anche un campo minato: a fronte di opportunità che fanno sognare, c’è il pericolo di alterare in modo permanente fattori della vita umana come l’ereditarietà o quello di mettere al mondo figli «su misura», con doti fisiche e intellettuali programmate a tavolino. Il recente caso del bambino nato da tre genitori grazie all’uso di una tecnica di alterazione genetica tanto avanzata quando controversa, o quello delle «forbici molecolari» del sistema Crispr, usate per la prima volta in Cina sull’uomo per modificare il suo Dna, rappresentano un brusco risveglio, nonostante le buone intenzioni delle due équipe.
Tanti dubbi, ma la marcia della genetica proseguirà. Bioscienze al posto dell’informatica? «L’ultima industria da mille miliardi di dollari è nata dalla codifica, il coding, dei computer. La prossima nascerà dal coding genetico. Ma la genetica non rimpiazzerà l’ information technology. Si completeranno a vicenda», sostiene l’esperto di tecnologia Alec Ross, consigliere di Hillary Clinton per l’innovazione negli anni in cui la candidata democratica alla Casa Bianca è stata segretario di Stato e ora docente alla Columbia University e alla Johns Hopkins. «Il sogno di un unico vaccino contro il tumore è tramontato da tempo, ma sono già parecchi i casi di patologie nelle quali gli scienziati hanno scoperto il modo in cui le mutazioni del Dna si trasformano in cancro. A volte c’è già un medicinale efficace. In altri casi industrie farmaceutiche e start up ci stanno lavorando», aggiunge Ross, che dal suo viaggio nel mondo della ricerca ha tratto un libro, Il nostro futuro (pubblicato in Italia da Feltrinelli).
Grazie alla sequenza del genoma e alle altre possibilità offerte dall’ information technology, secondo Ross «vivremo vite più lunghe, ma anche più complicate, perché dovremo imparare a gestire sistemi complessi d’indagine sul nostro corpo. E dovremo prendere decisioni difficili» in materia di prevenzione quando i test ci diranno che siamo particolarmente esposti a una certa patologia.
Ma non tutti sono convinti che la mappatura del Dna sia la chiave per sconfiggere le malattie. Qualche mese fa un docente della Johns Hopkins, Bert Vogelstein, ha fatto rumore nella comunità scientifica pubblicando i risultati di un test su un gran numero di coppie di gemelli (quindi con patrimoni genetici molto simili), dal quale risulta che la possibilità di predire e prevenire le malattie attraverso lo studio del Dna è limitata. Ma Ronald Davis, il direttore del Genome Technology Center dell’Università di Stanford, l’istituto al centro del Biohub, il primo progetto dell’iniziativa filantropica di Zuckerberg, ha contestato questa analisi: «Non abbiamo mai pensato di fare medicina solo con i dati del Dna. Ma incrociandoli con le altre informazioni cliniche del paziente, quelle sugli stili di vita e altro, possiamo combattere le malattie con molta più efficacia. E la diffusione della mappatura del genoma resa possibile dallo straordinario calo del suo costo – dalle centinaia di migliaia di dollari di qualche anno fa al traguardo ormai vicino dei mille dollari – creerà possibilità straordinarie. La mia sensazione è che la genomica oggi sia al punto in cui era l’e-commerce nel 1994», alla vigilia della sua esplosione.
La genomica, insomma, promette di diventare il cuore dell’industria del futuro, quella delle bioscienze. Un’industria da varie migliaia di miliardi di dollari nella quale, insieme alla medicina, c’è molto altro: dalle mutazioni genetiche degli animali (i maiali col Dna «ingegnerizzato» per trasformarli in fonti di organi compatibili con l’uomo) all’analisi del suolo agricolo, che viene trattato come se fosse il sistema immunitario delle piante che producono frutta e ortaggi. Quanto alla genomica applicata all’uomo, qui gli scienziati puntano soprattutto sul cancro, ma spaziano molto oltre questo tipo di patologia: dal diabete infantile alle malattie del sistema immunitario. Fino ai complicatissimi problemi del cervello, affrontati nella speranza di riuscire ad aggredire patologie come l’Alzheimer. Perfino la sordità, in futuro, potrà essere curata, anziché con gli apparecchi acustici, con farmaci biotecnologici capaci di individuare le terminazioni nervose dell’orecchio danneggiate e di rivitalizzarle.
C’è anche il capitolo, sempre più ricco, dell’uso delle tecnologie informatiche per migliorare la salute dell’uomo. Ad esempio nel campo dell’oculistica: si stanno diffondendo le app per gli smartphone che consentono di diagnosticare a distanza miopia, presbiopia e astigmatismo e di prescrivere lenti correttive. Una svolta per miliardi di persone che vivono in regioni remote, senza la possibilità di essere visitati da un oculista. «È un’altra area nella quale si moltiplicano le iniziative delle start up», aggiunge Ross. «Non c’è parte del corpo o patologia che non veda almeno un imprenditore al lavoro per rendere i servizi sanitari accessibili attraverso l’uso della tecnologia mobile». E tuttavia – a parte i nodi scientifici ancora irrisolti – il vero problema degli interventi sul genoma è quello delle implicazioni etiche. Abbiamo appena citato il caso del primo tentativo di applicare all’uomo una rivoluzionaria ed efficacissima tecnica di manipolazione genetica – identificata con la sigla Crispr – in corso proprio in questi giorni nel West China Hospital del Sichuan, in Cina. L’équipe guidata dall’oncologo Lu You sta provando a curare alcuni pazienti affetti da forme tumorali ai polmoni che non reagiscono alle terapie tradizionali – chemio e radioterapia – usando la Crispr: una tecnica abbastanza semplice e relativamente poco costosa che consente di modificare il genoma di qualunque essere vivente. In pratica le parti malate del Dna del paziente vengono eliminate e sostituite usando un enzima chiamato Cas9, che funziona come una specie di forbice molecolare. Fin qui i test sono stati condotti con successo sugli animali, mentre le applicazioni sull’uomo sono state sempre escluse per il timore di innescare un cambiamento dei caratteri ereditari. È la stessa comunità degli scienziati a mettere i politici in guardia dai rischi dell’introduzione di simili interventi sulle cellule. Lu You ha cercato di aggirare questi problemi evitando di toccare i fattori ereditari e curando solo malati per i quali non esistono altre possibilità terapeutiche. Le autorità cinesi a luglio l’hanno autorizzato ad andare avanti con la sperimentazione. Ma lui ora sta aprendo una nuova strada che verrà presto battuta da altri: sta anche partendo (in ritardo per problemi di autorizzazioni) una sperimentazione americana, finanziata da Sean Parker, miliardario delle tecnologie digitali.
Non tutti avranno gli stessi scrupoli di Lu You e se qualcuno entrerà nel campo del cambiamento dei caratteri ereditari, percorrerà una strada senza ritorno. La nascita del primo bambino con il Dna di tre persone anziché solo dei due genitori ha fatto scalpore: una manipolazione genetica vietata negli Usa e in molti Paesi europei, ma realizzata ugualmente da un’équipe di New York che ha eseguito l’intervento in Messico, dove non esistono divieti. Anche qui l’intervento è «morale» perché sconfigge la patologia che impedisce a una coppia di avere figli, ma apre un varco per altri interventi eticamente inaccettabili. Ross ammette che i rischi sono grossi: «Già oggi molti cambiano il loro corpo con la chirurgia plastica. Domani molti cambieranno quello dei loro figli se potranno intervenire sull’embrione. Immagino le polemiche all’Olimpiade del 2032: trattare gli atleti costruiti a tavolino come tutti gli altri?».
L’evoluzione in atto è inarrestabile. E il «Financial Times» può sentenziare: non è lontano il giorno in cui la vecchia abitudine dei medici di provare sul paziente vari farmaci alla ricerca di quello più efficace verrà ricordata come un caso di barbarie.
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Sono passati quarant’anni da quando Richard Dawkins pubblicò nel 1976 il suo celebre e discusso libro Il gene egoista (uscito in Italia da Mondadori nel 1992), un libro tanto amato quanto odiato dalle persone più diverse, in genere disposte ad ammettere di non sapere molto di fisica e di chimica, ma che credono di sapere tutto di biologia (e di psicologia). Che cosa diceva in sostanza Dawkins in questo libro? Diceva che non sono gli organismi o le popolazioni a dirigere il proprio destino biologico, ma i geni che loro portano nel proprio patrimonio genetico. Ogni gene, anzi, si fa solamente «i fatti suoi», mirando ad autoperpetuarsi e ad accrescere la propria diffusione nel mondo dei viventi. Se per «gene» si intende un tratto di Dna che porta una certa quantità di informazione biologica e possiede in proprio la capacità di replicarsi, la tesi centrale del libro in questione è difficilmente contestabile. In fondo Dawkins non fa altro che spostare l’accento dall’organismo ai singoli geni, e porsi (e porci) nella prospettiva di ciascuno di questi.
Per un biologo, e soprattutto per un biologo molecolare o un genetista, la proposta non contiene grandi elementi di novità, se non un interessante, e provocatorio, spostamento di punto di vista. Insomma, chiacchiere e non fatti. Per molti invece la proposta risultò e risulta ingiuriosa e insultante: ciascuno di noi ridotto a burattino nelle grinfie dei propri geni.
Come al solito, hanno ragione tutti o, se preferite, hanno torto tutti. E soprattutto sono passati appunto quarant’anni, quaranta «bollenti» anni. Quello che è rimasto della proposta originale è il coraggio e la messa in discussione forzata di tranquilli e riposanti schemi concettuali di chi pensava di aver capito tutto. (Nella scienza questo non è mai avvenuto e mai avverrà). Nel frattempo però è cambiata, ripetutamente, l’idea di gene; la sua importanza è impallidita rispetto a quella di genoma, che rappresenta ciò che noi trasmettiamo ai nostri figli come unità biologica indivisibile; si è raffinata e dettagliata l’idea stessa di replicazione e di controllo dell’azione genica: nessun gene agisce mai in isolamento. Vale la pena quindi riconsiderare seriamente l’intera questione ed è anche quasi obbligatorio farlo, con rigore e senza barriere ideologiche.