La Gazzetta della Sport, 12 ottobre 2016
Parla Ronald, l’altro de Boer
Ha visto Inter-Juve piegato in due, sul bordo della poltroncina. «Divento nervoso perché non posso fare nulla. Quando ero giocatore era diverso, potevo incidere. Ora sono lì in tribuna e soffro per mio fratello. Era così anche all’Ajax. Se non altro, ora posso tifare per l’Ajax stando più tranquillo». Così gemelli, così uguali. Ronald de Boer dà appuntamento per l’intervista nel quartiere dei musei, Frank a Milano ha preso casa vicino al Bosco verticale. Lo vedono a fare la spesa nel quartiere Isola o a passeggiare. «C’è Brera vicino, tanti bei posti. Sono stato a trovarlo la settimana scorsa e ci siamo goduti la città. Ho scoperto cose di Milano che non conoscevo». Ai De Boer piace la vita tranquilla, non separata dal mondo. Sono curiosi, abituati a frequentare mondi diversi. Frank e Ronald hanno girato insieme, da un piccolo posto vicino ad Amsterdam fino alla Catalogna e alla Scozia, per finire in Arabia. Sempre con la stessa confidenza reciproca e con la stessa identità calcistica, parola che Ronald ripete spesso. «Quello che voglio per mio fratello è il successo, ma prima di tutto voglio vedere la sua mano nel gioco. Voglio poter dire “ecco, questa è l’Inter di Frank de Boer”. Ci vuole tempo, ma la strada presa all’Inter è giusta. Ogni allenatore dovrebbe avere una visione: Frank ce l’ha».
L’Inter è un posto complicato: non ha avuto incertezze nell’accettare?
«E chi potrebbe averne? Prima di tutto, Frank è abituato alle pressioni, e poi l’Inter è un grande club. Magari qualche anno fa avrei pensato più a Frank in Inghilterra o Spagna, ma le cose nel calcio accadono e bisogna cogliere certe opportunità. Ora Frank ha bisogno di tempo, è sempre impegnatissimo, studia due ore al giorno l’italiano. Si sta impegnando al massimo per immergersi nella Serie A. E non dimentichiamo che l’Italia ha grandi club come Juve, Inter, Milan, e anche Napoli, Roma o Fiorentina. C’è un pezzo di storia del calcio del quale parlavamo sempre con Van Basten e gli altri che sono venuti a giocare in Italia. Io penso che Frank avrà successo all’Inter, ma in ogni caso questa esperienza farà di lui un allenatore migliore».
Avete lavorato insieme, poi lei ha scelto altre strade.
«Per ora. Ho scoperto che posso fare tante cose legate al calcio senza essere impegnato 24 ore su 24. Mi piace fare il commentatore in tv, mi piace andare in giro a giocare con le Legends. Se fai l’allenatore, queste cose te le puoi scordare. Però mi piaceva molto insegnare ai ragazzi nel settore giovanile dell’Ajax e uno dei miei sogni è tornare a lavorare con Frank. Fra cinque anni, magari, e non perché sono suo fratello, ma perché potrò dare un contributo al club».
Frank è più insegnante di calcio o manager?
«Cinque anni fa era ancora un ex giocatore che sapeva come insegnare i movimenti e i gesti, adesso è più manager. Può fare da solo, anche se ovviamente è importante avere uno staff come quello che si è costruito, con collaboratori che parlano italiano e hanno vissuto in Italia».
Spesso si pensa che un tecnico olandese faccia fatica a inserirsi nel pensiero di calcio italiano.
«Bisogna avere una visione e saper essere flessibili. Le idee di calcio di Frank sono come le mie e non sono mai cambiate: serve gente che sappia giocare la palla, difensori compresi. Ricordo la mia seconda partita con il Barcellona: Van Gaal decise di schierarmi terzino, anche se ero un centrocampista. Giocavamo contro il Real Madrid e vincemmo 3-0. Intendo questo quando dico che bisogna pensare a giocare la palla in ogni zona del campo. Ma a volte, quando trovi un avversario più forte, devi saperti adattare».
Frank è stato influenzato più da Cruijff o da Van Gaal?
«È un mix. Cruijff era estemporaneo, Van Gaal sapeva che adesso nel calcio ci vuole una struttura a tutti i livelli. Frank ha assorbito questa passione per la struttura. Ovviamente vuole vincere ogni partita e non sarà contento se perderà o anche se pareggerà. Vuole diventare campione d’Italia, per il momento direi che è realistico lottare per le prime posizioni. Questo però è quello che vedo io: Frank penserà sempre in grande, come è giusto che sia nel suo ruolo».
È la voglia di pensare in grande che lo ha spinto a lasciare l’Ajax?
«Frank ha lasciato l’Ajax perché ha capito che lì stava ripetendo se stesso, ma il nostro legame con il club sarà sempre forte. Purtroppo non possiamo più lottare per le coppe perché i migliori vanno via troppo presto. Non siamo più in grado di tenerli. È utopia pensare di vincere ancora la Champions League».
Probabilmente è utopia anche per un club italiano.
«Non credo proprio. In Italia ci sono ancora soldi nel calcio, c’è chi investe. La Juve può già vincere la Champions: è un mix di giovani e esperti, come eravamo noi nel 1995. Per creare grandi squadre ci vogliono talenti giovani e gente di personalità».
A proposito di personalità, suo fratello è stato criticato per aver messo in punizione Brozovic o aver sostituito Kondogbia troppo in fretta. È un uomo duro?
«Non parlo di calciatori singoli. Frank ha a cuore disciplina e rispetto ed è giusto che sia così: siamo cresciuti pensando che il rispetto per gli altri fosse la prima cosa e anche un minuto di ritardo è importante. Frank non è duro, è onesto e diretto. Una persona aperta e amichevole».
Avete mai litigato in campo?
«Succedeva spesso. Siamo sempre stati molto critici l’uno con l’altro, soprattutto lui con me. Frank era quello sempre concentrato, io sembravo giocare con noncuranza e lui si arrabbiava. In campo litigavamo e gli altri dicevano: “Oh, non la finiranno mai di discutere”. Invece per noi dopo due minuti era tutto dimenticato. Mi diceva cose che poteva dirmi perché era lui: un altro lo avrei preso a pugni. Ma abbiamo diviso la stanza da letto per 25 anni, Frank è il mio migliore amico e sa che può contare su di me. Anche se c’è da soffrire in tribuna».