Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 12 Mercoledì calendario

Dal pesce secco all’hi-tech e il sogno di battere Apple

PECHINO Tutto è cominciato nel 1938, quando Lee Byung-chull, il fondatore, si mise a commerciare con la Manciuria: pesce secco, verdura e frutta. La sua base era Daegu, nella Corea meridionale. Era capace e i suoi prodotti presto riuscì a farli arrivare fino a Pechino. Chiamò l’azienda Samsung, che in coreano significa Tre Stelle e in una decina di anni la trasformò in piccola industria moderna dotata di mulini per la macina della farina e macchine per l’inscatolamento. Venne la guerra di Corea, che tra il 1950 e il 1953 devastò il Paese. Lee Byung-chull ricominciò e pensò che bisognasse cambiare, diversificare. Si allargò, dalla produzione agricola al tessile, alle catene di negozi. Poi l’edilizia per ricostruire la Corea del Sud, la chimica, i cantieri navali, le assicurazioni. E soprattutto l’elettronica: le lavatrici, il primo televisore in bianco e nero con il marchio Samsung risale al 1970. L’azienda di pesce essiccato era diventata un «chaebol», la parola che identifica i giganteschi gruppi a conduzione familiare che hanno guidato l’ascesa industriale di Seul.
Il fondatore morì nel 1987 e gli successe il figlio Lee Kun-hee che si trovò a guidare un colosso così grande che il quartier generale è in una zona di Seul chiamata Samsung Town.
«Si può cambiare tutto, si deve cambiare tutto, escluso la moglie e i figli», disse nel 1993 il presidente Lee Kun-hee. Un discorso memorabile durato sette ore davanti a dirigenti, ingegneri e maestranze in un momento in cui il grande capo non era soddisfatto dei risultati. Un uomo duro che amava arringare i dipendenti. Una delle leggende aziendali sostiene che nel 1995 uno dei primi smartphone dell’azienda fosse difettoso e che quando il padrone lo venne a sapere andò in fabbrica e ordinò di bruciare tutta la produzione.
Da due anni e mezzo Lee Kun-hee è semiparalizzato: lo ha bloccato un arresto cardiaco con complicazioni cerebrali quando aveva 72 anni. Non è potuto intervenire con ordini imperiosi e sfuriate mentre le batterie del nuovo Galaxy Note 7 bruciavano distruggendo il sogno degli ingegneri coreani di dare il colpo di grazia ai rivali di Apple. In tutti questi mesi dopo la malattia del suo leader Samsung non lo aveva sostituito, perché la cultura confuciana della pietà filiale seguita in Corea non prevede la successione finché il padre è in vita, anche se come nel caso di Lee senior non è più fisicamente in grado di guidare un business da oltre 300 miliardi di fatturato l’anno (un quinto del Prodotto interno lordo della Corea del Sud) con quasi mezzo milione di dipendenti nei diversi rami della multinazionale in 80 Paesi.
Il 12 settembre, quando ancora il caso Galaxy sembrava attribuibile a un «piccolo errore» nella produzione della sua potente batteria, installata a ritmi forzati per anticipare il nuovo iPhone dei californiani, la svolta. Lee Jae-yong, figlio del presidente malato, è stato chiamato nel consiglio d’amministrazione di Samsung Electronics. Lee Jae-yong, 48 anni, laureato a Harvard (dall’esperienza americana si fa chiamare anche Jay Y.), è in azienda da vent’anni, ma era rimasto co-vicepresidente. Il padre, finché vivrà, sarà il padrone e l’uomo più ricco della Corea; Jay Y. nell’elenco dei miliardari della Tigre asiatica è al terzo posto.
Fonti di Seul ci dicono che Lee Jae-yong è meno duro del padre, ama sorridere e non alza la voce. Ma non è meno determinato: è divorziato e in azienda sostengono che «è sempre stato sposato con Samsung». La decisione di «terminare» la produzione del Galaxy è un tentativo chirurgico per limitare i danni d’immagine per Samsung. Quelli finanziari al momento si aggirano sui 19 miliardi di dollari tra mancate vendite, costi del richiamo dei modelli venduti e crollo in Borsa. Sul piano operativo Jay Y. si sta muovendo sulle orme del nonno fondatore e del padre: cambiare tutto, se serve. Samsung in queste settimane si è impegnata in una campagna di fusioni e acquisizioni con l’obiettivo di diversificare ancora. Ha venduto la divisione stampanti, la partecipazioni in Sharp e altri asset «non strategici» per circa 2 miliardi di dollari. Ma Jay Y. ha promesso di allargare, non di ridurre gli orizzonti di Samsung. La nuova frontiera sembra la biofarmaceutica. Cambiare, come fece dopo la guerra il primo Lee della dinastia.