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 2016  ottobre 10 Lunedì calendario

«Cosa penso della politica, della famiglia e dell’Italia». Intervista ad Alessandro Benetton

«Lateralità», «coraggio», «tempi giusti», «discontinuità». Sono i quattro punti cardinali per provare a orientarsi nella vita imprenditoriale, e personale, di Alessandro Benetton, l’erede di una delle più importanti famiglie imprenditoriali italiane che ha deciso di non fare l’erede. Salvo brevi parentisi in Benetton, l’ultima conclusasi nel 2013, lui ha sempre deciso di far crescere le imprese degli altri. E tanto più ora che la holding di famiglia Edizioni è appena passata dalla presidenza di Gilberto, fratello di Luciano e zio di Alessandro, a quella di un manager. Come previsto da tempo. Il suo è un caso più unico che raro nella storia del nostro Paese e dei suoi rampolli d’élite. «Ma quelli dell’erede designato non sono mai stati i miei panni. Ricordo gli inizi, tutti mi guardavano e pensavano al cognome, mentre io avevo in testa già di mettermi in proprio con la “21 Investimenti”». 
Nella sua ultima intervista, a inizio anno, dichiarò al Foglio che l’Italia viveva una fase cruciale dove si sarebbe dovuto cercare più il buon senso del consenso. Il governo ha seguito il suo consiglio? «Temo si sia cercato più il consenso. Ma forse bisognerebbe affrontare il tema dal punto di vista antropologico e chiedersi se in Italia ci sono le condizioni per seguire il buon senso. Credo che la nostra democrazia abbia dei limiti di maturazione gravi che condizionano chiunque guidi il Paese». 
Imprenditori, politici, cittadini: chi è più indietro? 
«Sarebbe ingiusto dare la colpa a una categoria. Sono tutti deboli in assenza di un progetto a medio o lungo termine. La domanda è: qualcuno ha un’idea di Paese in grado di farci crescere del 3-4%?». 
Cosa ci manca? 
«Servono leadership, conoscenza e progettualità. Bisogna cambiare i paradigmi strutturali e usare il potere per fare anziché per fermare, e il premier Renzi sta dedicando molte energie a questo obiettivo. Magari si può partire dalla valorizzazione dei talenti a prescindere dalle loro appartenenze: abbiamo giovani straordinari che hanno nel loro dna l’Europa e l’internazionalità, non possiamo sprecare queste risorse». 
Il Ponte sullo Stretto può diventare un ponte verso la crescita? 
«Il Ponte è un cavallo di ritorno, rispunta ciclicamente. Un po’ come una fidanzata di cui ti chiedi se è quella giusta. Se te lo chiedi troppo, significa che non lo è». 
Però lei parlava di progettualità e il Ponte è un progetto. O no? 
«Sì, ma la progettualità dovrebbe spingerci a guardare avanti, non indietro. Io non sopporto le persone negative e cerco sempre di guardare il bicchiere mezzo pieno, però non posso non rimarcare che quello che tiene ferma l’Italia è la poca capacità di guardare al futuro. Siamo conservatori e conflittuali, manchiamo di praticità. Confido molto nelle nuove generazioni». 
Che però faticano a trovare lavoro: i dati dicono che oggi si riciclano più facilmente i cinquantenni... 
«Quelli purtroppo sono i dati di una guerra tra poveri. I cinquantenni hanno esperienza, per questo trovano lavoro. Ma la ripresa non passa di lì. Le nostre rappresentanze politiche e sindacali quasi non sanno che è cambiata la tecnologia e che siamo entrati nell’industria 4.0». 
Bellissima parola, ma che cos’è l’industria 4.0? 
«Ecco vede... Quella dove la macchina guida l’uomo e lo corregge, intervenendo nei processi industriali». 
Che suggerimenti dà? 
«La cosa più importante, per tutte le imprese e penso anche per gli Stati, è non ripetere gli errori del passato. Negli anni Ottanta c’erano soldi ma li abbiamo sprecati aumentando a dismisura il debito pubblico anziché costruire l’Italia del Duemila. Tutto il mio progetto imprenditoriale alla 21 Investimenti si basa sul concetto di discontinuità, lo applicherei anche alla politica governativa». 
Discontinuità e tempistica sono gli elementi del successo, diceva... 
«Certo. La “21 Investimenti” da che è nata ha curato un’ottantina di progetti. Sono quasi tutti andati bene, tranne quei pochi in cui sono stati sbagliati i tempi. La velocità e la sintonia tra progetto e tempi sono elementi fondamentali del successo». 
La riforma costituzionale in senso monocamerale per la quale andremo a votare il 4 dicembre è davvero quella chiave per segnare la discontinuità con la politica inefficiente e autoreferenziale degli ultimi decenni?
«Credo che per dare discontinuità l’Italia abbia bisogno davvero di tante riforme. Bisogna avere la forza di abbandonare le vecchie strade. Va cambiato radicalmente tutto il contesto, considerando che la priorità è il lavoro. Burocrazia, giustizia, scuola, Costituzione, tutto va ripensato in funzione della possibilità dello sviluppo delle imprese, che hanno un importante ruolo sociale, senza imprese non c’è lavoro, senza lavoro non esistono famiglie e società. Dovremmo impegnarci di più a insegnare i nuovi lavori piuttosto che a difendere i vecchi». 
Peccato che il dibattito politico sia impiantato da inizio estate sulle trincee del “Sì” e del “No” alla riforma Boschi. 
«Questo però lo ha detto lei, non io». E scappa un garbato sorriso. 
Ma lo ritiene giusto? 
«Preferisco non esprimermi a riguardo». E ne scappa un secondo. 
Allora parliamo di Europa: è un’occasione, un limite o una scusa per darle le colpe di quel che non riusciamo a fare? 
«Credo che per essere competitivi nel mondo oggi sia necessario poter contare su una massa critica ed economica significativa che nessuno Stato europeo può avere da solo. Detto questo, non posso non vedere come l’Europa viva una crisi politica profonda». 
Cosa pensa della Brexit? 
«Che è stata un boomerang. È figlia del calcolo sbagliato di un politico, Cameron, che ha indetto il referendum sull’uscita dall’Unione per rafforzarsi e ne è uscito distrutto». 
È il fallimento dell’Unione? 
«È una grave battuta d’arresto, dovuta appunto alla profonda crisi politica dell’Unione, poco riconosciuta dagli Stati che la compongono. Le nazioni tendono a procrastinare la soluzione ai problemi dell’Europa fino a che questi non diventano emergenze, come nel caso dell’immigrazione. Non è il modo corretto di operare». 
Pensa che lo slogan “United Colors of Benetton” con la foto dei bambini di tutte le razze con cui il marchio della sua famiglia ha conquistato il mondo sarebbe anche oggi una trovata vincente o dal punto di vista del marketing, con le tensioni etniche attuali, sarebbe un autogol? 
«Credo sarebbe ancora oggi una buona idea perché quello slogan è nel nostro dna. L’Italia è sempre stata una nazione solidale e aperta alle contaminazioni straniere e questo ci ha permesso di avere una cultura così ricca e di farci apprezzare e di piacere ovunque all’estero. Per quanto riguarda l’emergenza immigrazione attuale, è ovvio che non possiamo essere lasciati soli a gestirla, altrimenti le tensioni sociali diventano inevitabili». 
Qual è stato il segreto del successo di Benetton nel mondo? 
«Essere partiti senza soldi. Quando non hai mezzi, sei predisposto al cambiamento e vengono fuori le idee. La ricetta vincente è stata l’inclusività, quella mentalità globale di mio padre che ha permesso di associare i fornitori e i negozi nell’avventura imprenditoriale. Un po’ come è successo a me, ai miei esordi, con la “21 Investimenti”, quando per finanziarmi ho introdotto il private equity in Italia, rilevando imprese con i soldi di fondi internazionali». 
Il segreto allora non è stato colorare i maglioncini? 
«Quello è stato un elemento importante di marketing del prodotto». 
Ho letto una dichiarazione in cui lei affermava di aver sempre guardato con un solo occhio agli affari di famiglia: come mai? 
«Un solo occhio, e spesso neppure quello. Ho avuto la fortuna di poter scegliere la mia strada fin da subito, dopo il master ad Harvard, a 26 anni. E sono riconoscente di questo». 
Però un recente passaggio in azienda l’ha fatto. Come mai è stato così breve? 
«È stato un passaggio tecnico, una parentesi. Mi avevano chiesto di assumere la presidenza, e di fatto sono rimasto solo un anno in cui ho progettato il percorso per il rilancio. Poi dal 2013 se ne sono occupati Edizione e il management e io sono tornato a dedicarmi a “21 Investimenti” a tempo pieno. D’altronde è come in auto, o guidi tu o è meglio non toccare il volante se guidano altri, si rischia di disturbare il lavoro e basta». 
Ritiene che in generale, senza fare nomi, i guai dell’Italia dipendano anche dal fatto che la seconda generazione di grandi imprenditori non è stata all’altezza di quella dei padri che hanno ricostruito il Paese? 
«Premesso che io mi ritengo di prima generazione, visto che ho fondato la mia impresa e vado avanti da 25 anni, nella mia esperienza di “21 Investimenti” ho notato che i passaggi generazionali non sono mai facili perché spesso mancano del valore della discontinuità, che come ho detto è vitale per un’azienda, che per vivere deve continuamente cambiare e adattarsi. Alcune volte il fondatore pensa che il figlio debba fare come lui, e magari anche meglio. Esercizio molto difficile fare meglio dell’ inventore. Sarebbe più efficace aiutare i figli a sviluppare nuovi modelli in sintonia con i loro talenti. Io sono stato fortunato. Me ne sono andato per seguire il mio istinto, e nessuno mi ha bloccato». 
Perché ha scelto di buttarsi nel private equity? 
«Per applicare ciò che avevo studiato. Ogni azienda arriva a un punto in cui per continuare a crescere deve cambiare prospettiva, fare un salto di qualità e pensare a come sarà il mondo tra dieci anni, anziché a replicare il modello che l’ha resa vincente. Si chiama osservazione laterale. È molto difficile che un imprenditore, forte del suo successo, ci riesca da solo. Noi lo aiutiamo, è il nostro valore aggiunto». 
Più che aiutarlo, voi diventate soci di maggioranza... 
«Anche questo è aiutare: aiuta i processi decisionali». 
Lei ha molte richieste ma sceglie di aiutare solo pochissime aziende. Come le seleziona? 
«In base alla possibilità di incidere sul management, allo stato di salute dell’azienda e alla situazione del mercato in cui opera. La tempistica, come le dicevo, è fondamentale». 
Lei si è formato negli Stati Uniti: cosa pensa della sfida tra Clinton e Trump? 
«Gli Stati Uniti, a differenza nostra, non hanno paura delle sfide e di cambiare tutto e questo può portarli a situazioni paradossali come la sfida Clinton-Trump». 
È preoccupato dall’esito della contesa? 
«Negli Stati Uniti ci sono forti limiti all’autoreferenzialità del presidente. I partiti sono ancora forti, laggiù». 
Sembra tornata una tensione Usa-Russia che non si ricordava dai tempi della Guerra Fredda... 
«La politica estera è sempre stata il tallone d’Achille degli Usa. Anche ai tempi dei Kennedy. Per il titolo del mio blog ho usato una frase di Bob Kennedy, “each time a man”, ma non dimentico il Vietnam. Meglio i vituperati anni Ottanta dei celebrati anni Sessanta».