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 2016  ottobre 11 Martedì calendario

Così gli istituti tedeschi hanno fatto il pieno di sconti

L’esame dei bilanci “statici”, cardine metodologico degli stress test di luglio, non era piaciuto a tutti. Alessandro Profumo, ex presidente di Mps, in quei giorni disse: «È come se una banca non avesse la possibilità di adattarsi alle condizioni di mercato. Un pedone si sposta se vede arrivare un tram addosso: invece con gli stress test si guarda a quante ossa si rompono se il pedone non si scansa». Ma ogni regola ha le sue eccezioni, come quella garantita a Deutsche Bank per la vendita promessa della controllata cinese Hua Xia, annunciata con gran tempismo il 28 dicembre 2015 e ancora inevasa, ma già detratta dai test dell’Autorità bancaria europea. L’eccezione cinese non stupisce: la primazia teutonica si manifesta in più modi da anni nella vigilanza unica del credito.È vero che tra le pieghe dei risultati delle 51 banche scrutinate a luglio si leggono ben 21 “eccezioni”, ma la loro generica descrizione non somigliano a quella del colosso di Francoforte, avallata dalla Bce e che contraddice in pieno il criterio per cui «ogni cessione, ricapitalizzazione o altre transazioni non completate prima del 31 dicembre 2015, anche se stipulate prima di quel termine, non è computabile».
Anche le cinque maggiori banche italiane hanno avuto le loro eccezioni: ammontano a 1.542 milioni di costi pretasse, sottratti alle prove dell’Eba. Ma sono cifre quasi tutte relative al salasso pro quota che Intesa Sanpaolo, Unicredit, Ubi, Mps e Banco popolare hanno versato il 22 novembre per salvare le quattro “good bank”; mentre a Unicredit sono stati scalati i costi d’integrazione del piano 2015-2018. Robetta. Ma sono robetta anche le eccezioni riconosciute dai controllori più in auge rispetto a quel che le banche tedesche racchiudono nei bilanci. Lo si racconta da anni in Borsa, dove del resto gli investitori da anni vendono istituti blasonati ma di cui ci si fida poco.
Due casi su tutti. Il primo riguarda i “modelli interni”, che le maggiori banche adottano per appostare meno capitale a fronte delle attività. Si basano su serie storiche e assunzioni teoriche per cui se una banca ha attivi pari a 100 non mette a riserva un decimo del loro totale, ma un decimo degli attivi “ponderati per il rischio”. Deutsche Bank con questi modelli ci va pesante: iscrive riserve solo su un quarto dei suoi 1.629 miliardi di attivi. I modelli interni di Intesa Sanpaolo ed Unicredit ponderano gli attivi per neanche metà del totale: e le banche di paesi virtuosi come Svizzera, Stati Uniti, Svezia stanno alzando il patrimonio di vigilanza, proprio per mitigare l’uso troppo spensierato dei modelli sintetici di rischio, che non piace alla vigilanza della Bce e meno ancora ai regolatori di Basilea 4. Tra i banchieri, però, si dice che all’ad di Deutsche Bank John Cryan siano stati dati quattro anni per smontare i suoi modelli, un’eternità.
 Anche Commerzbank regala perle contabili. Quando i tassi di interesse erano alti investì miliardi di euro in titoli sovrani periferici pluriennali a tasso fisso, su cui montò contratti per incassare cedole variabili: ma la caduta dei tassi ha portato in rosso quegli swap. Un po’ come per Mps con Santorini e Alexandria, che dovette dedurre dal patrimonio. Invece Commerz ha spostato quegli investimenti negli impieghi: così non ha più la noia di valutarli a prezzi di mercato, e fanno bella mostra nel trimestrale del 30 giugno: “Financial investments” per 76,1 miliardi di fair value, e 79,6 miliardi di valore di carico. Mancano per l’esattezza 3,5 miliardi.