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 2016  ottobre 11 Martedì calendario

In morte di Andrzej Wajda

Valerio Cappelli per il Corriere della Sera

«Aveva 90 anni ma era pieno di progetti, era ricoverato da una settimana in un ospedale di Varsavia. Gli ho parlato, era calmo, la sua morte è stata del tutto inattesa», dice Michal Kwiecinski, amico e produttore di Wajda.
Il regista venerdì era atteso alla Festa del cinema a Roma.
«Sì, e non vedeva l’ora. Era sicuro che ce l’avrebbe fatta, parlavamo di una proiezione in Vaticano. Il suo film Afterimage è la storia del pittore Wladyslaw Strzeminski che fu perseguitato nella Polonia sovietizzata del dopoguerra. E finì per arredare le vetrine dei negozi. Il mio paese lo ha candidato agli Oscar, è stato accolto trionfalmente a un festival polacco e a Toronto».
Ci sono echi della Polonia di oggi che flirta con l’autoritarismo?
«Non intenzionalmente, ma Wajda era un genio che precorreva i tempi. Strzeminski era un astrattista e il governo chiedeva realismo, non è così conosciuto nemmeno da noi, Wajda non voleva farne un eroe: è un film sulla libertà degli artisti e di ogni individuo».
Ha vissuto la censura?
«Per dodici anni non gli permisero di fare film. Anche se questo governo non gli piaceva, non ha mai pensato di lasciare il paese, al contrario di altri registi polacchi di cui non parlava mai, aveva una idiosincrasia per gli aneddoti. Era profondamente legato alla lingua e alla cultura della Polonia. Ed era ottimista sui giovani».
Qual è l’eredità artistica di Wajda?
«Nel mio paese non abbiamo registi con la sua integrità, col suo senso di giustizia. Lascia un grande vuoto».

***

Paolo D’Agostini per la Repubblica

ROMA IL NOME di Andrzej Wajda non ha mai raggiunto in Italia, purtroppo, la fama che la sua statura meritava e che invece altrove fuori dal suo paese, per esempio in Francia, è stata ampiamente onorata. Una produzione cinematografica vastissima, la sua, prossima ai cinquanta titoli cui va aggiunta l’intensa attività teatrale, che si è protratta fino all’ultimo momento. Aveva infatti appena realizzato un nuovo film, Afterimage, che avrebbe accompagnato l’omaggio al regista novantenne previsto dall’imminente Festa di Roma. È scomparso nella notte tra domenica e lunedì a Varsavia dopo un breve ricovero.


Wajda era nato nella regione nordorientale della Polonia nel 1926. Era figlio di un ufficiale di cavalleria ma fino a quando una decina di anni fa il regista decise di dedicare un film all’infame episodio delle fosse di Katyn pochi sapevano che tra le decine di migliaia di ufficiali polacchi trucidati dall’Nkvd, la polizia segreta di Stalin, c’era anche suo padre. Il tema della guerra e della tragica storia polacca del XX secolo lo ha sempre ispirato appassionatamente. Giovane artista dapprima indirizzato verso la pittura e poi verso il cinema proprio durante gli anni in cui, tra la fine del decennio 40 e i primi 50, la sovietizzazione del Polonia sottopone ogni espressione artistica al più rigido conformismo, e dopo aver debuttato ventottenne con Generazione (tra gli interpreti un giovanissimo Roman Polanski), lungimirante innesto del tema della guerra su quello della sensibilità giovanile, sulla stessa scia infila uno dopo l’altro due capolavori. Che ancora oggi – si era subito dopo il ’56 – rappresentano al massimo livello i primi risultati del disgelo post-staliniano. Non solo per la Polonia ma per tutto l’universo sottomesso all’influenza sovietica, e lanciando il primo decisivo ponte di sintonia con quanto si muove di nuovo nel cinema in occidente. Sono I dannati di Varsavia e Cenere e diamanti.

Il primo rievoca le ultime ore della disperata, eroica resistenza antitedesca durante l’insurrezione di Varsavia dell’estate ’44. L’altro, dominato dalla figura carismatica dell’attore Zbigniew Cybulski, il “James Dean polacco” poi morto prematuramente in un incidente (anche lui), porta alla luce con coraggio e con prodigioso equilibrio – probabilmente lo stesso che ha sempre permesso a Wajda di esprimersi liberamente senza però finire mai ai margini – una storia che nella Polonia di quel tempo era tabù su un ex combattente dell’Armia Krajowa, l’organizzazione clandestina di resistenza durante l’occupazione nazista, incaricato di uccidere un dirigente comunista di rientro dall’esilio moscovita. Il film è disseminato di messaggi che a uno spettatore distante possono sfuggire ma facili da decifrare per un polacco.

Della successiva sterminata produzione ricordiamo degli anni 60 Ingenui perversi, episodio significativo per le sue atmosfere allineate con le nouvelle vague internazionali. Del decennio successivo, ricchissimo di ispirazione, un gruppo di opere poetiche o storiche (spesso, ma questa è una costante, derivate dalla letteratura nazionale, sia classica che contemporanea) di cui fanno parte Le nozze, Il bosco di betulle, lo struggente Paesaggio dopo la battaglia sull’apertura dei campi di sterminio, La terra della grande promessa imponente affresco sulla rivoluzione industriale di fine Ottocento. Tutti titoli dove il posto dell’attore-feticcio Cybulski è stato ereditato da Daniel Olbrychski. Ma una svolta fondamentale, anche in termini di notorietà, arriva nel ’76 con

L’uomo di marmo. Che, ancora in pieno per quanto malmesso regime comunista, annuncia quanto accadrà negli anni successivi: il papato di Woytjla, Solidarnosc, gli scioperi, lo stato d’assedio, il crollo anticipato sull’89 di tutti gli altri regimi. La storia esemplare dell’operaio stakanovista Birkut è un concentrato della temperie di quella stagione di sovietizzazione forzata. Ma sarà il “seguito” L’uomo di ferro, opera di impronta militante immediata e meno raffinata, a condurre nell’81 Wajda alla conquista della Palma d’oro di Cannes. Pochi anni dopo il suo Danton (con Depardieu) replicherà con modalità suggestive un approccio strumentale e politico alla storia ritraendo in Robespierre un predecessore di Stalin. L’ultimo film di Wajda che abbiamo visto è Walesa, l’uomo della speranza, che mette in scena una celebre intervista del leader alla giornalista Oriana Fallaci.

All’inizio degli anni 90 Wajda è stato senatore. Tra i molti riconoscimenti ricevuti, a parte le più prestigiose onorificenze ufficiali polacche, il Leone d’oro di Venezia alla carriera e, nel 2000, l’Oscar alla carriera.

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Domenico Quirico per La Stampa

Prima che un grande maestro di cinema, prima che un intellettuale polacco Andrzej Wajda, morto ieri all’età di novantanni, era un uomo coraggioso. Perché molto coraggio era necessario, vivendo nella tenaglia della dialettica staliniana che aveva inghiottito anche il suo paese, per girare negli Anni 50 film come «Cenere e diamanti», «I dannati di Varsavia», «Quiete dopo la battaglia». Sì, perché il Padre dei popoli che eccelse nel massacro era appena scomparso e il male con la M maiuscola mostrava sempre il suo grugno. Quello era il mondo totalitario in cui il singolo cessa di poter pensare, scrivere, filmare diversamente da come bisogna e finisce di accettare questo «bisogna»: perché al di fuori di esso (il socialismo, il proletariato, la rivoluzione... ) niente di valido sembra poter nascere. Ecco le tremende tenaglie della dialettica che hanno soffocato generazioni di russi e di sudditi dell’impero: l’intellettuale si arrendeva non solo perché aveva paura per sé, ma anche perché aveva paura per qualcosa di più prezioso, che la sua opera avesse senso e valore.



Tutto lo sforzo doveva essere rivolto a restare allineati, si dubitava della validità artistica di resistere. Wajda lo ha fatto, ha resistito. Ha capito che descrivere la sofferenza purifica solo in una certa misura. Quando diventa quotidianità, si prolunga, ti trasforma in pezzi di legno. Bisogna lottare. Per questo era inevitabile diventasse il regista e il cantore di Solidarnosc e delle sue battaglie. Wajda è stato un demolitore del consenso organizzato che aveva preso il posto, tra corruzione e insipidi torpori, del feroce Leviatano stalinista. Fare cinema poesia romanzo storia in quel mondo era, non dimentichiamolo, una scuola di vertigine.


Nel 2007, in un piccolo cinema di rue des Arts a Parigi, ho visto uno dei suoi ultimi film, «Katyn», epitaffio dolente della crudele purificazione di classe che la polizia staliniana compì nel 1939: uomo dopo uomo, un colpo alla nuca, la eliminazione di ventiduemila ufficiali che costituivano la classe dirigente della Polonia appena spartita dal patto tra i boia, la Germania nazista e la Russia comunista. Il padre del regista fu una di quelle vittime gettate come immondizia in una grande fossa comune nella foresta, condannate da quella entità che nel Novecento ha preso il posto di Dio: la Storia. Il cinema, quella sera, era malinconicamente vuoto. Ma quella assenza era la prova del trionfo di Wajda: anche grazie a lui il Leviatano era stato debellato, non era più notizia, polemica, non infiammava le anime e le menti. 


Negli Anni Settanta si andava a vedere i capolavori di Wajda «L’uomo di marmo» cruda critica dello stalinismo e «L’uomo di ferro», epopea di Solidarnosc in cui recitava se stesso il baffuto tribuno di Danzica, Lech Walesa, per gettare uno sguardo oltre il Muro, non senza sentire un brivido: era una realtà sorda, fatta di attesa, di ansie sotterranee, una realtà di talpe indemoniate che scavavano micidiali gallerie sotto il potere di Visinskij avvizziti ma ancora brutali. Sentivano, quei polacchi, profeticamente lo scricchiolio della macchina del mondo comunista. Non lo sapevamo, ma appena dieci anni dopo, anche grazie a tutto questo, i Muri sarebbero crollati e la Grande Bugia si sarebbe decomposta nella polvere.
In Wajda si agitava inquieta e mai rassegnata l’anima polacca: stretta alla propria Croce, la dimestichezza con la disgrazia che è privilegio di coloro che nati spacciati dalla geografia convivono da secoli con la propria fine. Tutto uno spazio etnico ne fu segnato, una grande pianura aperta alla voglia brutale di russi, tedeschi, austriaci. A cui contrapponevano una competenza di suppliziati e di dolenti: i cavalieri polacchi che armati di lance sui loro fragili cavalli si lanciavano contro legioni di carri armati… Con una amarezza in cui c’era una certa dolcezza e persino una certa voluttà.