la Repubblica, 8 ottobre 2016
La Hollywood di Howard Hughes raccontata da Warren Beatty
A Hollywood è una leggenda: Warren Beatty (80 anni il prossimo 30 marzo) torna a dirigere, per la prima volta da Bulworth (1998), la commedia romantica
Rules don’t apply (“L’eccezione alla regola” sarà il titolo italiano) che aprirà il festival dell’American Film Institute prima della sua uscita sugli schermi americani il 23 novembre. Beatty, 14 candidature e una vittoria all’Oscar come regista per Reds, una carriera lunga 60 anni come attore, regista, sceneggiatore e produttore (per non parlare della sua fama di donnaiolo impenitente prima del matrimonio con Annette Bening, 25 anni fa), ha scritto e prodotto la sceneggiatura di questo film, ambientato nel 1958 a Hollywood, i cui lui stesso interpreta l’eccentrico miliardario Howard Hughes accanto a Lily Collins (figlia di Phil) nei panni della giovane aspirante attrice Marla, e Alden Ehrenreich (Han Solo del nuovo film antologico Guerre Stellari) in quelli di un autista impiegato da Hughes – che proibisce relazioni romantiche fra i suoi impiegati. Due giovani intensamente religiosi e allo stesso tempo intensamente attratti uno all’altra. Del cast fanno parte anche Bening nei panni della madre protettiva di Marla, Alec Baldwin, Matthew Broderick, Candice Bergen, Ed Harris, Oliver Platt e Martin Sheen.
«Non è esattamente un biopic di Hughes», dice Beatty, incontrato al Four Seasons Hotel di Beverly Hills, riferendosi al film che offre anche uno sguardo satirico sulla Hollywood di cui Hughes faceva parte. «Affronta il puritanesimo sessuale degli anni 50 e 60, più o meno il periodo in cui sono arrivato a Hollywood, effetti collaterali compresi: a volte tristi, a volte comici». Puritanesimo che non appartiene a Beatty, che proprio nei giorni scorsi ha pubblicamente difeso il figlio transgender Stephen Ira in un’intervista con Vanity Fair: «È un rivoluzionario, un genio e il mio eroe, come sono tutti i miei figli» (quattro, che vanno dai 16 ai 24 anni, avuti da Annette Bening), dice l’attore, da sempre convinto democratico.
Signor Beatty, il suo è anche un film autobiografico?
«In un certo senso. Trovo divertenti le cose che si son dette a proposito di Howard Hughes. Francia e Italia hanno sempre irriso il puritanesimo americano: ridevano di noi per il modo in cui affrontavamo – o meglio non affrontavamo – il sesso. Esito a usare quest’immagine (ride), ma per me fare un film è come vomitare. Non che mi piaccia vomitare, ma funziona così: hai un’idea che ti frulla in testa, a volte ti diverte, a volte ti tortura, poi a un certo punto è meglio se esci fuori e la vomiti».
Com’è stato il suo arrivo a Hollywood nel 1958?
«Feci subito Splendore nell’erba con Elia Kazan, fu un successo che mi mise in ottima luce con la generazione dei William Wyler, Billy Wilder e George Stevens e Freddie Zimmerman e produttori come Selznick e Zanuck e Sam Goldwyn. Ho imparato tanto da loro e mi sono reso che persone della loro età non erano molto diversi dai ragazzini che arrivavano a Hollywood. Venivo dalla Virginia, da una famiglia battista del sud, mio padre e mia madre erano insegnanti, non esattamente puritani, ma sono cresciuto in quell’atmosfera. Arrivai a Hollywood che in un certo senso era (ed è ancora) l’emblema dell’amore e – inevitabilmente – del sesso. Pensi che divertimento per me parlare di un giovane metodista e di una ragazza battista entrambi alle dipendenze di Howard Hughes: uno che non aveva regole, aveva ereditato una fortuna e poteva fare quello che voleva».
Come mai tutto questo tempo per tornare su un set?
«In questi anni ci sono stati i figli, e io sono sempre ai loro ordini: scuole, viaggi, vacanze. Posso passare tanto tempo felicemente senza inciampare sui cavi di un set, ma ora che i figli sono praticamente tutti via di casa c’è qualcosa in quel nido vuoto che mi incoraggia a uscire, a fare film, a riprendermi la mia vita professionale».
Che relazione ha con i suoi figli?
«Vede questa cosa? (dice, mentre solleva il cellulare dal tavolo, ndr). I miei figli mi hanno insegnato a usarlo. Li chiamo i miei 4 paesi dell’Europa dell’Est, porto avanti negoziati con loro, a volte mando anche gli ambasciatori. Per lo più passo il mio tempo ad aspettare che rispondano ai messaggi, e resto malissimo se non lo fanno subito, o se rispondono a monosillabi».
Qual è il segreto del suo matrimonio?
«Non ha conosciuto Annette?... Direi la perfezione della donna con cui sono sposato. Che è anche la miglior attrice al mondo, a mio avviso».
Lei è produttore da 50 anni, regista da quasi 40. Com’è cambiata Hollywood?
«E sono attore da 58, per essere precisi. La mia vita è cambiata definitivamente per via di quella cosa chiamata fama. È un’enormità a cui ci si deve adattare. Ti cambia come attore, come regista, come uomo. Da regista ho trovato difficile adeguarmi al digitale e alle uscite di massa nei cinema. Improvvisamente il destino di un film dipendeva dalla reazione alla prima uscita del venerdì sera...».
Cosa ha imparato dalla sua famiglia?
«Mio padre aveva un dottorato in psicologia dell’educazione, mia madre era professoressa, sua madre direttrice di un’università in Nova Scotia, mio zio ha integrato la prima scuola in Virginia, erano tutti insegnanti... è chiaro che da loro ho imparato tutto. E conoscete tutti mia sorella maggiore, Shirley MacLaine...».
Avrebbe fatto qualcosa di diverso?
(Riflette in silenzio): «No».
Le mancano le fan impazzite di quando era più giovane?
(Ride): «No».
Vorrebbe fare altri film?
«Nel mio futuro c’è tanto tempo da passare con Annette...».
Qualcosa che ancora vuole fare nella vita?
(Ride): «Perché pensa che lo racconterei a lei?».