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 2016  ottobre 08 Sabato calendario

«Lettera al mio successore» di Barack Obama

Il mio successore ricordi le parole di Lincoln in difesa dei più umili
OVUNQUE vada, in patria o all’estero, tutti mi fanno la stessa domanda: che sta succedendo al sistema politico americano? Come mai un Paese che – forse più di ogni altro – ha tratto benefici dall’immigrazione, dal commercio e dall’innovazione tecnologica all’improvviso ha assunto un atteggiamento protezionistico, anti-immigrati e anti- innovazione? Perché alcune componenti dell’estrema sinistra e, ancor più, dell’estrema destra hanno scelto un populismo rozzo che promette il ritorno a un passato impossibile da recuperare, che per la gran parte degli americani neppure è mai esistito?
È vero che in America si è diffuso un certo livello di preoccupazione riguardo alle dinamiche della globalizzazione, dell’immigrazione, della tecnologia e persino del cambiamento in sé. Non è una novità, né si tratta di un fenomeno diverso dallo scontento diffuso in tutto il mondo, che trova spesso manifestazione nello scetticismo verso le istituzioni internazionali, gli accordi commerciali e l’immigrazione. Questo scontento è in gran parte frutto di timori che non sono essenzialmente economici. Le opinioni anti-immigrati, anti-messicani, anti-musulmani riecheggiano derive “nativiste”.
SEGUE ALLE PAGINE 14 E 15
GLI ALIEN and Sedition Acts del 1798 (leggi sugli stranieri e la sedizione, ndt), il Know-Nothing della metà dell’Ottocento (Organizzazione xenofoba e anticattolica fondata da protestanti americani, ndt), l’avversione nei confronti degli asiatici tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, e tutte le epoche in cui gli americani si sono sentiti dire che per rivivere le glorie del passato bastava tenere sotto controllo un determinato gruppo e una determinata idea. Abbiamo superato quei timori e li supereremo ancora.
Ma parte dello scontento si fonda su preoccupazioni legittime circa le dinamiche economiche a lungo termine. Decenni di produttività in calo e di aumento delle ineguaglianze hanno rallentato la crescita degli introiti delle famiglie a basso e medio reddito. La globalizzazione e l’automazione hanno indebolito la posizione dei lavoratori e la loro capacità di garantirsi un salario dignitoso. Sono troppi i potenziali fisici e ingegneri che lavorano in finanza a spostare denaro invece di mettere le loro doti a servizio dell’innovazione nell’economia reale. E la crisi finanziaria del 2008 non ha fatto che isolare ancor di più la grande impresa e le élite rispetto ai comuni cittadini.
Non stupisce quindi che la tesi secondo cui il gioco è truccato trovi terreno fertile. Ma in questo comprensibile stato di frustrazione, in gran parte alimentata da politici che in realtà peggiorerebbero la situazione invece di migliorarla, è importante ricordare che il capitalismo è stato il massimo vettore di prosperità e opportunità mai sperimentato al mondo. Negli ultimi 25 anni la percentuale della popolazione in stato di estrema povertà è scesa dal 40 a meno del 10 per cento. Lo scorso anno le famiglie americane hanno beneficiato del massimo aumento del reddito pro-capite in assoluto e il tasso di povertà ha registrato il calo più rapido dagli anni Sessanta ad oggi. I salari sono cresciuti più velocemente durante questo ciclo economico rispetto a qualunque altra fase dagli anni Settanta a oggi. Profitti simili sarebbero stati impossibili senza la globalizzazione e la trasformazione tecnologica, che sono fonte di parte delle preoccupazioni alla base del dibattito politico nel nostro Paese.
La realtà di oggi è caratterizzata proprio da questo paradosso. Il mondo gode di una prosperità mai sperimentata, eppure le nostre società sono afflitte da incertezza e disagio. L’alternativa è ritirarsi all’interno o spingersi avanti, consapevoli che la globalizzazione può comportare disuguaglianza, impegnandoci affinché l’economia globale funzioni meglio per tutti, non solo per chi sta al vertice.
UNA FORZA A SERVIZIO DEL BENE
Il movente del profitto può avere un forte impatto sul bene comune, spingendo le imprese a creare prodotti che entusiasmano o motivando le banche a dare credito alle imprese in crescita. Ma questo non è in sé sufficiente a creare prosperità e crescita condivise. Gli economisti da tempo hanno ammesso che i mercati, lasciati ai loro meccanismi, possono sbagliare. Sostanzialmente il capitalismo forgiato da pochi e irresponsabile nei confronti dei più costituisce una minaccia per tutti. Le economie hanno maggior successo quando si colma il divario tra ricchi e poveri e la crescita si realizza su base ampia. Un mondo in cui l’1 per cento dell’umanità controlla una quantità di ricchezza pari al restante novantanove per cento non avrà mai stabilità. Le forbici tra ricchi e poveri non sono una novità ma, proprio come un bambino da una baraccopoli può vedere i grattacieli attorno, la tecnologia consente a chiunque possieda uno smartphone di vedere come vivono i privilegiati. Le aspettative crescono più rapidamente di quanto i governi possano soddisfarle e un diffuso senso di ingiustizia mina la fiducia della gente nel sistema. Senza fiducia il capitalismo e i mercati non possono continuare a produrre i profitti realizzati nei secoli scorsi.
Questo paradosso di progresso e rischio è in atto da decenni. Pur andando fiero di ciò che la mia amministrazione ha realizzato in questi otto anni, sono sempre stato consapevole che il perfezionamento della nostra unione richiede tempi ben più lunghi. La presidenza è una gara di staffetta in cui ciascuno di noi è chiamato a dare il proprio contributo per avvicinare il Paese a quelle che sono le sue massime aspirazioni. Da dove parte il mio successore?
Per progredire ulteriormente bisogna riconoscere che l’economia americana è un meccanismo di enorme complessità. Certe riforme più radicali – sciogliere tutte le maggiori banche o imporre dazi proibitivi sulle importazioni – possono sembrare accattivanti in astratto, ma l’economia non è un’astrazione. Non si può ripensarla completamente e ricostruirla senza conseguenze reali. Per ricostruire appieno la fiducia in un’economia in cui gli americani che lavorano sodo possono far strada occorre invece far fronte a quattro grandi sfide strutturali: rilanciare la produttività, contrastare l’aumento delle disuguaglianze, garantire che chiunque lo desideri trovi un lavoro e costruire un’economia resiliente, pronta alla crescita futura.
RECUPERARE IL DINAMISMO ECONOMICO
Innanzitutto negli ultimi anni abbiamo assistito a incredibili progressi tecnologici grazie a Internet, la banda larga mobile e i cellulari, l’intelligenza artificiale, la robotica, i materiali avanzati, il miglioramento dell’efficienza energetica e la medicina personalizzata. Queste innovazioni, pur avendo cambiato le nostre vite, non hanno sostanzialmente incrementato la misura della crescita della produttività. Nel decennio scorso la produttività in America è cresciuta più velocemente che negli altri Paesi del G7, ma ha subìto un rallentamento rispetto a quasi tutte le economie avanzate. In assenza di una più rapida crescita economica non saremo in grado di realizzare gli aumenti retributivi auspicati. Una delle principali cause del rallentamento della crescita produttiva è stato il deficit di investimenti pubblici e privati provocato in parte dai postumi della crisi finanziaria. Ma è anche frutto di vincoli autoimposti: l’ideologia contraria alla tassazione che blocca in pratica tutte le fonti di nuovi fondi pubblici; l’ossessione del deficit a spese dei costi di manutenzione che trasferiamo ai nostri figli, in particolare per le infrastrutture; e un sistema politico fazioso al punto da mettere fuori discussione progetti un tempo bipartisan, come l’ammodernamento di ponti e aeroporti.
L’aumento della produttività e dei salari dipende anche dalla creazione di una corsa globale all’eccellenza nelle regole dei commerci internazionali. Anche se certe comunità hanno subìto la concorrenza straniera il commercio ci ha portato più vantaggi che svantaggi. Le esportazioni ci hanno aiutato a uscire dalla recessione. Secondo un rapporto elaborato dal Consiglio dei consulenti economici della mia presidenza i lavoratori delle imprese americane attive nell’esportazione percepiscono in media un salario superiore del 18 per cento a quello erogato dalle imprese che non esportano. Per questo continuerò a esercitare pressioni affinché il Congresso approvi il trattato di libero scambio nel Pacifico (TPP) e sigli il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (TTIP) con l’Unione Europea. In secondo luogo, oltre al rallentamento della produttività in gran parte delle economie avanzate si è registrato un aumento delle diseguaglianze, che tocca il picco negli Stati Uniti. Nel 1979, l’1 per cento delle famiglie percepiva il 7 per cento del reddito complessivo al netto delle imposte. Nel 2007 il valore si era più che raddoppiato arrivando al 17 per cento. Questa dinamica contrasta con l’essenza stessa dell’identità del popolo americano. Noi non invidiamo il successo, aspiriamo a raggiungerlo e ammiriamo chi lo ottiene. Come diceva Abramo Lincoln, «non proponiamo la guerra al capitale, ma vogliamo consentire al più umile degli uomini le stesse possibilità di arricchirsi di chiunque altro». È per questo che la disuguaglianza costituisce un problema, perché riduce la mobilità verso l’alto.
Gli economisti hanno elencato molte cause per l’aumento della disuguaglianza: la tecnologia, l’istruzione, la globalizzazione, il declino dei sindacati e il calo del salario minimo. Tutti questi fattori giocano un ruolo e abbiamo fatto progressi concreti su tutti questi fronti. Ma penso che abbiano contribuito molto anche i cambiamenti della cultura e dei valori. In passato le differenze di retribuzione tra i dirigenti di un’azienda e i lavoratori erano tenute a freno da un maggior livello di interazione sociale tra i dipendenti: in chiesa, nelle scuole che frequentavano i figli, nelle organizzazioni civiche. È per questo che gli amministratori delegati portavano a casa un compenso 20-30 volte su- periore al compenso medio di un loro dipendente. La riduzione o l’eliminazione di questo fattore frenante è una delle ragioni per cui oggi un amministratore delegato viene pagato oltre 250 volte di più.
Un’economia va meglio quando si riduce il divario tra ricchi e poveri e la crescita è ampiamente diffusa. Non è solo un’argomentazione morale. Le ricerche dimostrano che nei Paesi con maggiore disuguaglianza la crescita è più fragile e le recessioni più frequenti.
PIÙ SOLDI PER I POVERI E LE CLASSI MEDIE
L’America ha dimostrato che fare progressi è possibile. L’anno scorso, i guadagni di reddito per le famiglie nella parte bassa e centrale del reddito sono stati maggiori di quelli per le famiglie nella parte alta. Nel corso della mia presidenza, i redditi del 20 per cento di famiglie più povere nella distribuzione del reddito sono cresciuti del 18 per cento (al 2017), e l’aliquota fiscale media sulle famiglie che guadagnano più di 8 milioni di dollari l’anno (lo 0,1 per cento più ricco) è stata alzata di quasi 7 punti percentuali, secondo i calcoli del dipartimento del Tesoro. L’1 per cento più ricco delle famiglie ora paga di più. Anche questi sforzi, comunque, non sono ancora sufficienti: bisognerà varare misure ancora più drastiche per invertire la tendenza all’aumento della disuguaglianza. Anche aumentare il salario minimo federale, rafforzare il credito di imposta sui redditi da lavoro per i lavoratori senza figli a carico, limitare gli sgravi fiscali per le famiglie ad alto reddito, impedire alle università di imporre rette eccessivamente alte che tagliano fuori studenti capaci e garantire che uomini e donne ricevano lo stesso compenso aiuterebbero a muoverci nella giusta direzione.
LAVORARE MENO
In terzo luogo, un’economia di successo dipende anche dalla capacità di offrire opportunità lavorative importanti a tutti quelli che cercano un lavoro. Ma in America la partecipazione alla forza lavoro delle persone in età lavorativa primaria è in calo da lungo tempo. Nel 1953, solo il 3 per cento degli uomini tra i 25 e i 54 anni non aveva un lavoro: oggi sono il 12 per cento. Nel 1999, il 23 per cento delle donne in età lavorativa primaria non lavorava: oggi sono il 26 per cento.
L’inoccupazione involontaria incide negativamente sulla soddisfazione di vita, l’autostima, la salute fisica e la mortalità. È collegata a un aumento devastante dell’abuso di oppiacei e al relativo incremento delle morti per overdose e dei suicidi tra gli americani senza un titolo di studio universitario (il gruppo in cui la partecipazione alla forza lavoro è calata più precipitosamente).
Ci sono molti modi per trattenere un maggior numero di americani all’interno del mercato del lavoro quando la fortuna gli volta le spalle. Per citarne alcuni: fornire un’assicurazione salariale per quei lavoratori che non riescono a trovare un nuovo lavoro pagato quanto quello vecchio; garantire modelli di formazione lavorativa di comprovata efficacia e assistenza per trovare lavoro; estendere i sussidi di disoccupazione a un maggior numero di lavoratori; garantire giorni di permesso e malattia retribuiti e potenziare l’offerta di servizi di alta qualità per l’infanzia, per fornire più flessibilità a dipendenti e datori di lavoro; anche le riforme del sistema penale e i miglioramenti delle misure per il reinserimento nella forza lavoro, che hanno ricevuto un sostegno bipartisan, migliorerebbero la partecipazione, se venissero approvate.
COSTRUIRE FONDAMENTA PIÙ SOLIDE
Infine, la crisi finanziaria ha dolorosamente messo in evidenza la necessità di un’economia più solida, in grado di crescere in modo sostenibile senza depredare il futuro a vantaggio del presente. Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che un libero mercato prospera solo quando ci sono regole che tutelano dal rischio di collasso del sistema e garantiscono una concorrenza equa.
Grazie alle riforme adottate in seguito alla crisi, ora il sistema finanziario è più stabile. Le grandi istituzioni finanziarie americane non ottengono finanziamenti con la stessa facilità di prima, a dimostrazione che il mercato sta diventando più consapevole che non sono più “troppo grandi per fallire”. E abbiamo creato un organismo di vigilanza unico nel suo genere – l’Ufficio per la tutela finanziaria del consumatore – per sorvegliare le istituzioni finanziarie. Nonostante tutti questi progressi, alcune parti del sistema bancario ombra presentano ancora elementi di vulnerabilità e il sistema del credito immobiliare non è stato riformato. Dovrebbe essere un motivo per migliorare ulteriormente quello che già abbiamo fatto, non per disfarlo. E quelli che dovrebbero levarsi in difesa di riforme più spinte troppo spesso non tengono conto dei progressi che abbiamo fatto, preferendo condannare il sistema nel suo insieme.
L’America dovrebbe anche fare di più per prepararsi agli shock negativi prima che avvengano. Con i bassi tassi di interesse attuali, la politica di bilancio dovrebbe giocare un ruolo più importante per contrastare le recessioni future: l’onere di stabilizzare la nostra economia non dev’essere scaricato interamente sulle spalle della politica monetaria. Sfortunatamente, la cattiva politica a volte prevale sulla buona economia. La mia amministrazione, per favorire la ripresa dopo la crisi, ha garantito un’espansione della spesa pubblica molto più importante di quello che molti credono (fra il 2009 e il 2012 sono stati oltre una dozzina i provvedimenti di legge che hanno fornito supporto all’economia, per complessivi 1.400 miliardi di dollari), ma molte energie sono andate sprecate a litigare con il Congresso per far passare anche le più semplici misure di buon senso. Non sono riuscito a ottenere alcune delle misure di espansione della spesa pubblica che avrei voluto e il Congresso ha imposto prematuramente misure di austerity minacciando uno storico default sul debito. Il mio augurio è che chi verrà dopo di me non debba combattere per far passare misure di emergenza in periodi di necessità: gli strumenti di supporto per le famiglie più colpite e per l’economia, come i sussidi di disoccupazione, dovrebbero aumentare in modo automatico.
RIDURRE LE EMISSIONI
Infine, per garantire una crescita economica sostenibile sarà necessario affrontare il problema dei cambiamenti climatici. Negli ultimi cinque anni, l’idea che tagliare le emissioni fosse in contraddizione con la crescita economica è stata accantonata: l’America ha ridotto le emissioni del settore energetico del 6 per cento, anche se la nostra economia è cresciuta dell’11 per cento. I progressi realizzati dal nostro Paese hanno contribuito al raggiungimento dello storico accordo sul clima di Parigi, che offre la migliore opportunità possibile per preservare il pianeta per le generazioni future.
UNA SPERANZA PER IL FUTURO
Il sistema politico può essere frustrante, e nessuno lo sa meglio di me. Ma è stato fonte di oltre due secoli di progressi economici e sociali. E i progressi degli ultimi otto anni offrono al mondo una certa dose di speranza: nonostante divisioni e discordie di ogni tipo, siamo riusciti a impedire una seconda Grande Depressione; il sistema finanziario è stato stabilizzato senza imporre alcun costo ai contribuenti, e l’industria automobilistica è stata salvata; ho varato un piano di stimoli più vasto e tempestivo perfino del New Deal del presidente Roosevelt, e ho presieduto alla più ampia riscrittura delle regole del sistema finanziario dagli anni 30 a oggi, oltre a riformare il sistema sanitario e a introdurre nuove regole per la riduzione delle emissioni di veicoli e centrali elettriche.
I risultati sono chiari: un’economia più durevole e in crescita; 15 milioni di nuovi posti di lavoro nel settore privato dall’inizio del 2010; salari in aumento, povertà in diminuzione e i primi segnali di un’inversione di tendenza della disuguaglianza; 20 milioni di americani in più dotati di copertura sanitaria; calo delle emissioni di anidride carbonica.
Nuove basi sono state gettate per tutto il lavoro che rimane da fare. Sta a noi scrivere un futuro nuovo. Dovrà essere un futuro di crescita economica non solo sostenibile, ma condivisa. Per riuscirvi, l’America dovrà continuare a impegnarsi per lavorare insieme a tutte le altre nazioni e costruire economie più solide e prospere per tutti i nostri cittadini nelle generazioni a venire.