La Repubblica, 8 ottobre 2016
Tirana, viaggio nella Las Vegas dei call center che ci tempestano di offerte
«Buongiorno, chiamo da Bancoposta, parlo con il signor Rossi?...». Danjana, cuffia alle orecchie e computer davanti agli occhi, sorride mentre telefona in un italiano fluido con leggero accento straniero. Le sue parole emergono distinte per un attimo, poi tornano a fondersi nel concerto di decine di voci che rimbalzano tra le mura della grande sala colorate in stile fumetto. Sotto le finestre, intanto, scorre caotico il traffico delle strade intorno a Piazza Skanderbeg, sfiorando la Torre dell’Orologio e la moschea Et’hem Bey.
Benvenuti a Tirana. Benvenuti nella Las Vegas dei call center. Arriva molto spesso da qui la telefonata che, inesorabile all’ora di pranzo o mentre siamo impegnati in qualcos’altro, ci propone di cambiare fornitore dell’elettricità o di modificare la tariffa del cellulare. E da qui ci rispondono quando chiamiamo un numero verde, magari per chiedere informazioni sulla raccolta differenziata dei rifiuti nel nostro Comune. Una ventina di call center medio-grandi, per lo più di proprietà italiana, che lavorano con le commesse di gruppi del calibro di Vodafone, Sky, Enel, Fasweb, Acea o di qualche istituzione pubblica, e oltre trecento aziende più piccole, spesso microscopiche, che lavorano in subappalto. È praticamente il core business dell’economia albanese, la fetta più consistente del Pil, e dà lavoro a oltre 25mila operatori che ogni giorno indossano cuffia e microfono per dialogare al telefono con l’Italia. Un esercito di ragazzi e di ragazze che, inconsapevolmente, stanno combattendo la guerra dei call center. E la stanno vincendo.
Gli sconfitti sono dall’altra parte dell’Adriatico, dove colossi come Almaviva, 2,3 milioni di fatturato mensile e quasi quarantacinquemila addetti tra Italia e estero, continuano a collezionare perdite di bilancio e a tagliare posti. Almaviva, che ha sconfessato gli accordi di sei mesi fa con sindacati e governo annunciando 2500 esuberi nelle sedi di Roma e di Napoli, punta il dito contro la pratica delle aste al massimo ribasso scelta dai committenti e, soprattutto, contro la delocalizzazione dei contratti di fornitura nei call center dei Paesi extra-Ue dove il costo e la flessibilità del lavoro sono senza confronto. Il governo e i sindacati accusano l’azienda di «ricatto» e di «provocazione», mentre i dipendenti dopo anni di lotta per il lavoro e per i diritti sono nuovamente nell’angoscia. Insomma, l’ennesimo danno collaterale della globalizzazione che in Italia si misura in tassi di disoccupazione e, qui in Albania, nei bassi livelli delle tutele per i lavoratori.
Prendiamo Fiber Ict, per esempio, call center con sei sedi a Tirana e dintorni, seicento lavoratori e un fatturato di circa 500 milioni di euro con tassi di crescita vicini al 30%. È di proprietà di un imprenditore italiano, Daniele Volpe, che ti racconta «la voglia di riscatto degli albanesi, un popolo composto soprattutto da giovani e con un tasso di scolarizzazione molto alto».
Gli operatori di Fiber sono quasi tutti laureati o studenti universitari. Parlano mediamente tre lingue e guadagnano (con contratti a termine e turni di 4, 6 e 8 ore) da un minimo di 250 euro al mese (più bonus) nel caso degli addetti all’outbound – per intenderci chi ci telefona a casa proponendoci servizi o prodotti – ad un massimo di 500 euro per gli operatori dell’inbound, cioè gli help desk ai quali è l’utente a telefonare per ricevere informazioni. Considerando il costo della vita in Albania (l’affitto di un appartamento, per avere un termine di confronto, è intorno ai 70 euro mensili), con 500 euro si può anche pensare di mettere su famiglia. Progetto quantomeno ardito per chi, nei call center italiani, sta ben sotto i mille euro al mese.
«Ma non è solo una questione di costo del lavoro più basso – spiega Volpe – qui si può contare anche su una flessibilità che in Italia ci sogniamo. Quella albanese è un’economia in piena crescita: tanto per dirne una, il Paese è interamente cablato con la fibra ottica e dopo i call center si stanno affacciando anche le prime multinazionali con i loro investimenti».
La flessibilità, però, troppo spesso è sinonimo di precarietà, senza contare che in Albania i sindacati praticamente non esistono e che soltanto da qualche tempo hanno cominciato a spuntare le prime regole a tutela dei lavoratori. «Ma qui nessuno si sente sfruttato – dice Erida, 28 anni, che dai banchi del call center è passata al settore commerciale dell’azienda -. Io sono laureata e ho studiato inglese e francese, mentre l’italiano l’ho imparato guardando ogni giorno la vostra televisione. I call center sono il primo sbocco lavorativo per noi giovani albanesi. L’alternativa è di andare all’estero, ma molti poi tornano a casa, come fanno ad esempio quelli che vanno in Germania dopo essersi laureati in medicina».
I call center di Tirana sono uno sbocco, un’occasione non solo per i giovani albanesi. Alla Fiber lavorano anche una decina di italiani venuti a Tirana per costruirsi quel futuro che nel nostro Paese non riuscivano a intravedere: «Ero dipendente in un’azienda metalmeccanica marchigiana – racconta Omar – ma quando mia moglie, che è albanese, ha perso il lavoro ci siamo trasferiti qui perché solo con il mio stipendio in Italia non ce la facevamo. L’assurdo è che poco tempo dopo il licenziamento di mia moglie, il suo datore di lavoro italiano che diceva di essere in crisi ha assunto altre due persone. È vero, qui in Albania i sindacati non si vedono, ma comunque abbiamo la maternità e la malattia».
Parli con Pranvera, con Jetmit e con tutti gli altri ragazzi del call center Fiber e ti rimane l’impressione di qualcosa che per loro funziona davvero. Però resta anche il dubbio che dietro alle mura colorate della sala operatori, alle feste e alle gite organizzate dall’azienda, si nascondano le dinamiche della globalizzazione che, come sempre, fa leva sull’entusiasmo e sulle necessità di questa gente senza portare qui un benessere stabile. Intanto, in Italia, i lavoratori di Almaviva attendono dall’ennesimo incontro tra azienda, governo e sindacati, un barlume di speranza per provare a guardare avanti. Mercoledì prossimo saranno in strada a Roma, sotto il ministero dello Sviluppo Economico, a testimoniare la loro disperazione. Se lo racconti ai ragazzi di Tirana, ti rispondono che neanche sanno cosa sia Almaviva, che per loro l’Italia è soltanto il paese del Festival di San Remo e dei grandi calciatori. Sorridono, si infilano la cuffia e ricominciano a telefonare. L’esercito inconsapevole della guerra dei call center.