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 2016  ottobre 07 Venerdì calendario

I diari di guerra di Ernst Jünger

Quindici taccuini in dimensione da taschino, densi di appunti. Sono il Diario di guerra 1914-1918 di Ernst Jünger (fu lui stesso a intitolarlo così) che per la prima volta viene integralmente tradotto in italiano per i tipi della Leg (pagg. 642, euro 28, a cura di Helmut Kiesel, trad. Francesca Sassi). Il testo sarebbe preziosissimo anche solo come documento. Nei suoi 3 anni e 8 mesi al fronte Jünger ha preso parte a 8 grandi battaglie, tra cui quella della Somme, e ad un’infinità di scaramucce. Non esiste nessun altro diario di ufficiale tedesco così completo e che copra un arco temporale così esteso.
A questo si somma l’incisività del grande scrittore. I diari sono stati vergati in trincea, spesso in condizioni disagevoli. E alcune notazioni proprio per questo sono di rapidità telegrafica, a volte infarcite di errori ortografici (che la traduzione italiana ha mantenuto proprio per non falsarne la genuinità). Eppure Jünger adotta una modalità rappresentativa vivace e precisa, diretta ed efficace proprio perché non letteraria. Se la forza delle Tempeste d’acciaio è proprio nell’uso di similitudini e metafore nel Diario tutto è molto meno mediato. Eppure le radici di quel testo, del Tenente Sturm e di Boschetto 125 sono tutte qui. Alcuni episodi, se ne accorgerà il lettore attento, sono perfettamente riconoscibili nelle opere mature. Come è riconoscibile la radice della profonda riflessione di Jünger sulla fascinazione che l’uomo prova per la guerra. Si percepisce chiaramente anche nello stralcio, scritto il 27 giugno 1916, che pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell’editore. In esso il terrore e l’estetica del guerriero convivono in un sottilissimo equilibrio. «Passassero cento anni non troverai una morte migliore di questa».

Matteo Sacchi 

***

 Mi ero appena tolto gli stivali e schiaffato nella mia cuccetta, quando è iniziata una violenta sparatoria. Non volevo farmi disturbare in nessun caso, ho inveito contro la maledetta artiglieria e mi sono girato sull’altro fianco. All’improvviso è risuonato un grido dall’alto, all’ingresso della galleria è spuntato Paulicke che ha urlato: «Signor Sottotenente, attacco con i gas tossici!!!» La mia prima domanda: «Si vede una nuvola di gas?» «Sì! E molto chiaramente!».
In piedi! Tira fuori la maschera antigas. Infila gli stivali. Allaccia tutto, corri fuori. Mi si è presentato davanti uno spettacolo singolare. Sulle colline di Monchy si levava una coltre bianca simile alla nebbia, che da lì si riversava sulla valle sottostante che conduceva al punto 124. Ma anche a destra e a sinistra di quella cortina erano visibili nuvole bianche, sebbene più leggere.
Non c’è niente da fare! ho riflettuto fulmineo. Il mio plotone è a Monchy in posizione, il nemico si nascondeva probabilmente dietro la nube di gas, perciò restava un’unica possibilità: avanzare a passo di corsa! In un batter d’occhio ho scavalcato la barriera di filo spinato e sono sfrecciato in direzione di Monchy-au-bois. La corsa mi ha condotto sul dorso delle colline, che da due anni nessun piede umano aveva più calpestato, attraverso erbacce rigogliose e straripanti.
Ed ecco che ho respirato la prima boccata di gas. Ah! Cloro! È bastato un respiro per risvegliare i ricordi delle lezioni di fisica dei tempi andati. Su la maschera! Mi sono messo la maschera davanti al viso per un istante appena, poi l’ho abbassata subito. Avevo corso talmente forte che l’aria che passava attraverso i filtri non era sufficiente, oltretutto sudavo a tal punto che la visiera per gli occhi si era appannata in un battibaleno ed era diventata completamente opaca. Mi sono strappato la maschera, anche se ho avvertito subito una violenta fitta al petto. Nel frattempo ho ricominciato a correre a ritmo costante, saltando di tanto in tanto su una trincea di avvicinamento. Alle mie spalle le batteriee del bosco di Adinfer erano impegnate in un enorme fuoco di sbarramento. E così è capitato che all’inizio non mi accorgessi affatto delle granate che mi scoppiavano accanto. Guardandomi attorno, ho visto che il pendio che stavo percorrendo si trovava sotto un fuoco di sbarramento. Nel grandi campo liberi ai margini di Monchy ho visto la sfilza di granate e i coni esplosivi degli shrapnell, col loro raccapricciante fischio.
Era una di quelle scene che si vedono ritratte nei dipinti di battaglie, solo che io era l’unica persona in quella landa desolata. Noi combattenti moderni non conosciamo quasi per nulla questo tipo di fuoco d’artiglieria in campo aperto, la morte ci si avvicina solo nelle tetre buche del terreno. A destra e a sinistra, qua, là, laggiù e ancora più indietro le granate gettano i loro coni neri dalla terra marcescente, qui là e ovunque si alzano le nubi bianche degli shrapnell. Le attraverso di corsa, a tutta velocità. Quando si può correre in avanti in questo modo, sparisce ogni paura dei colpi dell’artiglieria, lo spirito è impegnato e una sensazione di superiorità ti rende completamente sicuro.
E così avevo raggiunto il margine delle villaggio e attraversato il primo fuoco di sbarramento. Poi sono saltato in una trincea di avvicinamento e sono corso attraverso i giardini di Monchy in direzione della porte di Eilenburg. I giardini di Monchy si trovavano sotto una travolgente pioggia di shrapnell, bossoli inesplosi, spolette che saettavano tra i rami degli alberi da frutto. Ho mosso i primi passi e sono quasi inciampato su un proiettile inesploso fresco d’atterraggio.
Mentre sfrecciavo sotto la grandine di pallottole appoggiandomi solo un istante a una traversa per riprendere fiato, ho pensato non so per quale motivo: sei proprio un soldato incapace se qui non ti buschi una pallottola da medaglia. Poi ho fatto un altro pensiero: Macché, va’ avanti, passassero 100 anni non troveresti una morte migliore di questa. E così: copertura, salto, copertura, salto ho raggiunto i rifugi della riserva di Monchy ovest.