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 2016  ottobre 07 Venerdì calendario

Il fattore hacker sul voto americano

Trump mette le mani avanti: queste elezioni potrebbero essere truccate. Hillary Clinton accusa i russi di cercare di interferire nel voto per la Casa Bianca. E Jeh Johnson, il ministro dell’Interno di Obama, ammette davanti al Congresso che durante le primarie ci sono stati tentativi di penetrazione nei meccanismi informatici dei distretti elettorali. Gli investigatori Usa, che fanno risalire le incursioni ad hacker vicini alle agenzie spionistiche di Mosca, sostengono che in un paio di casi questi tentativi hanno avuto successo (in Illinois e, forse, in Arizona), mentre molti altri sono stati respinti. Gli hacker per ora non hanno alterato l’esito delle consultazioni elettorali: hanno attaccato solo i registri dei cittadini che si sono iscritti al voto. Ma tanto è bastato per convincere 18 Stati della Confederazione, fin qui gelosi della loro totale autonomia anche in questo campo, a chiedere l’aiuto del governo di Washington per migliorare i loro meccanismi di cyber security. Il problema per la democrazia americana è serio, anche se le possibilità che gli hacker del Cremlino riescano a modificare il risultato delle urne sono vicine allo zero: salvo pochi casi (schede dei residenti all’estero e dei militari delle basi fuori dai confini Usa) le macchine elettroniche che registrano i voti non sono collegate a Internet, il canale attraverso il quale operano gli hacker. In un sistema molto decentrato come quello americano – 7.000 contee e città, ognuna col suo specifico sistema di voto – gli hacker dovrebbero fare uno sforzo mostruoso per avere qualche possibilità di successo. Ma proprio la natura polverizzata e caotica di questo sistema alimenta il rischio maggiore: una perdita di fiducia degli americani in un meccanismo-chiave della loro democrazia. I sondaggi dicono, ad esempio, che un elettore su cinque sta pensando di non andare alle urne nel timore che il suo voto venga «dirottato». Dietro le incursioni dei pirati informatici c’è la realtà di un sistema di voto che, informatizzato in tutta fretta, con scarsa competenza e poche garanzie dopo l’incidente del 2000 (i numeri contestati in Florida nel testa a testa tra George Bush e Al Gore), fa acqua da tutte le parti. I giganti digitali, da Apple a Google, hanno lasciato ad aziende meno qualificate il mercato poco redditizio e con vincoli burocratici di ogni genere, dell’automazione del voto. Aziende spesso svanite nel nulla dopo aver creato sistemi vulnerabili o sottodimensionati. Anche per questo la sfiducia cresce.