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 2016  ottobre 07 Venerdì calendario

La biografia di uno scrittore conta eccome. Di Paolo risponde a Camon

Vi ricordate quando si andava alla lavagna e il professore di turno chiedeva, di un autore, «vita e opere»? Noioso forse, tuttavia sensato. Sulla Stampa di ieri lo scrittore Ferdinando Camon ha riletto il caso Ferrante – il mistero (più o meno svelato) della scrittrice anonima – in modo curioso. Arrivando alla conclusione che, tutto sommato, non vale la pena perdere tempo con la biografia di Leopardi per capire la sua poesia. Contano solo le opere, insomma: così vanno ripetendo, un po’ scandalizzati, anche i fan dell’autrice senza volto.
 Ma al di là della legittima – ripeto, legittima! – scelta di Elena Ferrante o chi per lei, c’è una questione che stiamo perdendo di vista. Lo slogan strutturalista relativo alla «morte dell’autore» mi pare abbastanza invecchiato per prenderlo ancora sul serio. Ma siamo sicuri di voler mandare al macero quintali di storie letterarie? È curioso: gli stessi difensori dell’opera-senza-autore spesso si incantano leggendo i diari o le lettere di Virginia Woolf, festeggiano Pasolini alle feste comandate e spingono per riaprire il caso giudiziario, fanno la fila per l’autografo ai festival letterari. Qualcosa non torna. La biografia di un autore non è una somma di pettegolezzi, una questione di portineria.
Nessuno è tenuto ad avere notizie su vani catastali, conti in banca, abitudini igieniche di uno scrittore. Ma interrogarsi sul senso del suo stare al mondo, sul rapporto – misterioso ben più di uno pseudonimo – tra le pagine che ha scritto e la vita che ha vissuto. No, non è un mito romantico, e non c’entra niente la smagliante nuova «autorialità» condivisa di serie tv e di scritture crossmediali. Sto parlando d’altro: sto parlando di quel contatto magico tra la tela di Van Gogh che vedo esposta nel grande museo affollato di turisti e la vita di lui, piccola, disperata, irripetibile. Il contatto tra una poesia di Ungaretti e il vento della trincea. Tra una pagina di Céline e il suo imbarazzante, faticoso, supremamente libero stare al mondo. 
Mi piacerebbe capire perché visitiamo vecchi atelier in Provenza, case di scrittori, piccoli musei affollati di oggetti un tempo appartenuti a quello scrittore, a quel filosofo. È solo indiscrezione? È solo un ficcare il naso dove non dovremmo? Proust e Salinger non digerivano intrusioni nel loro privato, e questo sì, è comprensibile. Ma a posteriori sarebbe così facile capire – provare a capire veramente – la Recherche e i Nove racconti? A questo punto salta subito fuori chi dice: e allora Omero? E Shakespeare? Che sappiamo di loro? Eppure li leggiamo e li amiamo. Peccato che il tentativo di saperne un po’ di più, l’illusione di sfiorarli appena, ci sta a cuore da secoli. C’è una scena, nel film di Mario Martone che racconta Leopardi, Il giovane favoloso, che mi commuove. Non c’entrano né la condizione fisica, né la vita familiare. C’è lui che legge, insieme al fratello e alla sorella, una lettera di stima che gli arriva da Pietro Giordani. Detta un po’ per le spicce, il primo grande letterato che crede in lui. Mi commuove perché mi ricorda che un’opera non esiste senza qualcuno, un banale e stupefacente essere umano (astenersi software). Qualcuno che ama, che spera, che soffre, che chiede attenzione agli altri, al mondo. Qualcuno che può anche cambiarsi di nome ma – se scrive – lo fa perché resti un poco di sé, una traccia del suo essere passato su questo pianeta.