Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  ottobre 02 Domenica calendario

Come La Stampa raccontò i 55 giorni del rapimento Moro

Il 16 marzo 1978, poco prima delle 9,30, irrompe la notizia del rapimento di Aldo Moro e del massacro di cinque uomini di scorta. La vita della Stampa è ancora insanguinata dall’agguato al vicedirettore Carlo Casalegno quattro mesi esatti prima (morirà in ospedale il 29 novembre 1977) e la redazione sta scrivendo sull’assassinio del maresciallo Rosario Berardi, freddato sei giorni prima a una fermata del tram a Torino.
L’agguato in via Fani
La Stampa, per tutti i 55 giorni di prigionia di Moro, racconta e analizza senza lasciarsi deviare dall’orrore che l’ha da poco colpita. Scrive il direttore Arrigo Levi nel primo editoriale: «Con i terroristi non si tratta», ma ammonisce: «Sono frutto di comprensibili reazioni emotive le ipotesi di proclamazione della legge marziale, o di instaurazione della pena di morte».
La cronaca è racconto e indagine: l’agguato attimo per attimo, stranezza per stranezza (i dodici uomini del commando usano una 128 con targa diplomatica venezuelana, armi particolari), la blindatura immediata della capitale, le perquisizioni a raffica, ma anche la vedova Moro china sui corpi degli agenti che accompagnavano il marito, poi lo Stato che si compatta, le reazioni nei palazzi del potere, il Paese in lutto con cinema e negozi chiusi, manifestazioni, 200 mila persone in piazza nella sola Roma.
La Renault in via Caetani
Liliana Madeo si addentra in vita e morte, ideali e sacrificio delle cinque vittime, colleghi sorvegliano le indagini e le vane ricerche di Moro prigioniero a Roma, fino al 9 maggio, quando in via Caetani, vicino alla sede del Pci, è segnalata una R4 rossa con un cadavere nel bagagliaio. In un’area subito resa inaccessibile Marco Tosatti si infila tra gli sbarramenti incollato al ministro dell’Interno Cossiga ed è lì quando aprono il portellone su quegli occhi semiaperti. Scrive Tosatti: «Sembra assopito, ma un’aria sofferente è sul volto, coperto dalla barba lunga di qualche giorno».
Accanto ai fatti via via accertati si vuol trasmettere al lettore la tensione dei passi che portano alla notizia e l’indomani, anticipando – seppur in un unico blocco – gli aggiornamenti in tempo reale di Internet, si pubblicano in fila le agenzie che minuto dopo minuto da un’auto ancora chiusa con un corpo ripiegato si avvicinano alla verità.
C’è, nelle pagine del 10 maggio, l’orrore di fronte a quella lotta armata, ma ci sono la pietà per l’uomo e l’omaggio allo statista. Giovanni Spadolini racconta l’ultimo incontro: «Lo inquietava il terrorismo, ma più ancora lo inquietavano le radici e i consensi giovanili». Vittorio Zucconi analizza la strategia del sangue passo dopo passo: «E adesso uomini delle Brigate rosse?», domanda e, indagando quali strade siano aperte, scrive: «La lezione del massacro non riguarda la natura del terrorismo ma la sua condizione attuale, che è massicciamente di crisi ideologica».
La condanna dei terroristi
La scure di Norberto Bobbio tronca l’immagine degli assassini: «Che parlino per il proletariato, vindici di quelli che soffrono e hanno sete di giustizia, ci riempie di disgusto e di orrore». Ed è Primo Levi a puntare contro il mistero che accompagna spari e vittime, parlando di «buio del Paese cominciato nel ’69 e sul quale non si è voluto o saputo fare luce». E delinea «un gioco cinico e spietato che è incominciato a Dallas e che forse non ci sarà mai dato di capire».