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 2016  ottobre 02 Domenica calendario

A Pisa una bella mostra su Salvador Dalì

Fra i grandi del secolo scorso, forse solo Andy Warhol ha appaiato il marchese di Púbol per volere di re Juan Carlos, ovvero Salvador Dalí, nel volar via dal recinto dell’arte per penetrare a fondo l’immaginario della società occidentale. Entrambi così caratterizzati – si pensi alle liquide deformazioni di certi dipinti del catalano o alle serigrafie delle star, esseri umani e prodotti, dell’americano – da potersi indirizzare a chiunque dovunque, certi d’esser subito riconosciuti. Ma se Warhol si può far collimare con la Pop Art, chi fu invece Salvador Felipe Jacinto Dalí i Domènech, oltre che il figlio di un benestante notaio di Figueres, dove nacque nel 1904 e morì ottantacinque anni dopo? Un luciferino, visionario, geniale Dulcamara o il laico mistico del Surrealismo, di cui fu prima star per poi farsi, cacciato da Breton, imprendibile, carismatico unicum del ‘900? Un talento enorme ed esoterico votatosi al sacerdozio dell’arte oppure autocratica, autocertificata divinità d’ogni possibile rito creativo? Molte le questioni ancora aperte sul tavolo degli studiosi.
Una mostra, Dalí. Il sogno del classico, fino al 5 febbraio in Palazzo Blu a Pisa ne indaga intanto, con la cura di Montse Aguer, direttrice dei Musei Dalí-Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres, uno dei tratti salienti: il forte legame con i maestri del Rinascimento italiano e dell’arte classica. Nel quale il debordante, sincretico Dalí, espulso dall’onirica truppa bretoniana nei primi ’40, trovò il Graal cui asservire la propria individualissima arte. D’altronde, già nel 1925, sul catalogo della sua prima mostra a Barcellona, l’artista ventunenne, e non immune dall’italico “ritorno all’ordine”, cita Ingres quando dice: «è familiarizzandosi con le invenzioni degli altri che si impara, nell’arte, a inventare se stessi, come ci si abitua a pensare leggendo le idee altrui».
L’ipertrofica, lussureggiante rete interattiva di opere, segni e comunicazioni che ha lasciato intorno e dietro a sé fu rinascimentale anche per la fluviale, febbrile simultaneità dell’agire di Dalí. E per l’umanistica ampiezza di mezzi impiegati, peraltro prima già ripresa, mutatis mutandis, da Futurismo e Dada: disegno, in cui mostrò fin da ragazzo una mano a dir poco eccezionale, pittura, scultura, illustrazione, incisione, grafica, fotografia, la molto amata gioielleria.
Fino al cinema. Coltivato prima da giovanotto a Parigi, 1929-1930, per i classici surrealisti e del cinema d’artista
Un chien andalou e L’age d’or
girati col conterraneo Buñuel, con García Lorca fra gli amici stretti dell’artista. Poi con Hitchcock, per il quale nel 1945 va ad Hollywood e, pur coi tagli causati dall’ostilità del potente tycoon David O. Selznick (quello di Via col vento), realizza il celebre sogno di Io ti salverò. Senza scordare la cospicua attività di coreografo, con Massine e in proprio, e quella ancor più consistente di saggista teorico, giornalista e scrittore, soprattutto di sé medesimo. Né quella, immanente a tutta la sua opera, di pioniere della più moderna pubblicità.
Protagonista e testimone d’un secolo soverchiante come il ‘900, il mercuriale Dalí vide in Raffaello e Perugino, Palladio o ancor più Bramante, Leonardo e, sopra ogni altro, Michelangelo, di cui ancora liceale aveva scritto con ardore, le luci più forti e pure di un’età dell’oro. Studiata attraverso la sua sterminata biblio-fototeca e i Grand Tour istigatigli da Gala, ex moglie del grande poeta surreali- sta Paul Éluard, dal 1929 e per tutta la vita musa e compagna dell’artista.
Nelle eleganti sale affacciate sull’Arno, centocinquanta le opere, tutte dai musei di Figueres, dal Dalí Museum di St. Petersburgh in Florida e dai Vaticani. Fra quelle, quattro inediti degli anni ’80, quando Dalí alla fine della vita si prefigge la ricerca dell’immortalità e il Buonarroti torna prepotente a guidarne il lavoro, fulcro unico e instancabile del suo fare, essendogli dichiaratamente indigesta l’ispirazione: Senza titolo. Mosè da quello della tomba di Giulio II di Michelangelo; Senza titolo. Cristo della Pietà di Palestrina attribuita a Michelangelo; Senza titolo. Giuliano de’ Medici da quello del sepolcro di Giuliano de’ Medici; Senza titolo. Dal Ragazzo accovacciato di Michelangelo.
Una comunione che si celebra nella più rispettosa ma contemporanea innovazione da parte del catalano, che in quelle riletture dispensa tutta la sua irrequietezza. La stessa che, ai primi ’40, lo aveva spinto sulle tracce di un altro genio ribelle e incoercibile individua-lista, scelto a sua immagine e somiglianza: Benvenuto Cellini. Al cui versatile magistero ed all’esistenza guascona la celebrata, complessa vena di illustratore di Dalí (suoi anche un
Macbeth, parte del Don Chisciotte e i Saggi di Montaigne) attinge, 1945, per i disegni e gli acquerelli, ora in mostra, dell’Autobiografia del grande orafo e scultore.
Nel ’48 Gala e Dalí tornano in Spagna e oltre ad un nuovo Grand Tour, durante il quale Dalí fa da costumista-scenografo per un Così è se vi pare di Visconti all’Eliseo, l’anno dopo il maestro avvia la sua “nuova era della pittura mistica”.
Nella quale confluiscono i suoi maggiori interessi: la scienza, che la fissione atomica aveva da poco rilanciato, la religione e i retaggi rinascimentali. Fase testimoniata in mostra da importanti opere religiose nate fra 1950 e 1960, sulle e nelle quali aleggia, atomizzata o sezionata, comunque trasfigurata, una Gala semidivina: Paesaggio di Portlligatt, L’angelo di Portlligat, Sant’Elena a Portlligat, La trinità.
Al mutare del suo pensiero, l’Italia resta comunque una stella fissa. Prova ne sia un’altra colossale opera di illustrazione, affrontata fra il 1950 e il 1952: la Divina Commedia, a Palazzo Blu con le xilografie e i dipinti sulle tre cantiche. Commissionato per i settecento anni dalla nascita di Dante dal Poligrafico dello Stato, e segnato dalla riconoscenza di Dalí in specie per il Botticelli della Primavera, quell’opus magnum non fu però mai pubblicato; tali furono le proteste delle opposizioni che, con imbarazzante provincialismo, non gradirono fosse uno spagnolo ad illustrare il capolavoro simbolo della cultura italiana.