la Repubblica, 6 ottobre 2016
Ecco come sarà il salone del libro di Milano (che si chiamerà Tempo di Libri)
Miracolo a Milano, finalmente la fiera del libro si fa a casa. Sembrano tutti contenti al terzo piano di Palazzo Reale, dove viene presentata al mondo la nuova creatura: si chiamerà Tempo di libri, occuperà due padiglioni della Fiera di Rho (dal 19 al 23 aprile) e vanta un comitato scientifico con i protagonisti colti dell’editoria, da Luigi Brioschi a Luca Formenton (“invitato permanente”, così recita la dicitura ufficiale). E i registi culturali hanno i volti freschi di Chiara Valerio (per il programma generale) e Pierdomenico Baccalario (per l’area ragazzi) che rompe il grigio scuro della platea con una giacca a quadretti rossa. Giovani, capaci, cresciuti su classici e giochi di ruolo: «Chi meglio di loro?», è entusiasta Renata Gorgani, neo presidentessa della Fabbrica del libro.
Il grande sogno finalmente si realizza: portare via il Salone dal Lingotto. Erano anni che la grande industria editoriale milanese meditava lo “scippo”: una tentazione costante vissuta come incubo dai torinesi. Che ci faceva all’ombra della Mole la più importante kermesse nazionale di libri? Non siamo noi, in Lombardia, i più grandi, i più influenti, quelli che pubblicano più titoli? E non lo siamo ancora di più oggi che vantiamo la più alta concentrazione editoriale mai avuta in Italia e senza pari in Europa (Mondadori&Rizzoli, quasi il 35 per cento del mercato)? Finalmente le cose si aggiustano. E se gli editori preferiscono evitare esibizioni muscolari, non si trattiene il presidente Roberto Maroni che sgrana un rosario di primati. «Milano è un palcoscenico mondiale: la sua fiera farà bene a tutti, anche a Torino. Ne ho parlato poco fa anche con il presidente Chiamparino. La questione è definitivamente chiusa. Milan l’è un gran Milan». Dal tono spiccio di Maroni si deduce che anche Chiamparino si sia arreso alla supremazia milanese. Sarà così? Poco più tardi arriva una nota del presidente della Regione Piemonte: «Effettivamente ho parlato al telefono con Maroni, ma solo di impianti di innevamento. L’argomento Salone non è stato sfiorato». Neve o libri, che differenza c’è?
Ma non è tempo di polemiche, in piazza Duomo. È giorno di festa e tutti devono essere contenti. I posti in platea sono stati studiati nel dettaglio. In prima fila i consiglieri culturali della nuova fiera, ci sono anche Mirka Giacoletto Papas per l’editoria universitaria e Roberto Gulli di Pearson, il gigante della scolastica. Dietro di loro i publisher più influenti, Alessandro Monti (Feltrinelli), Stefano Mauri (Gems) ed Enrico Selva Coddè (Mondadori& Rizzoli). Nelle file a seguire il prestigio va lievemente scemando, ma non il sorriso, come da copione. Al tavolo siede il più soddisfatto di tutti, il sindaco Giuseppe Sala a cui è riuscito il colpaccio in cui avevano fallito i suoi predecessori leghisti e forzisti: spostare a Milano la più importante bookfair italiana. Non si è esposto in questi mesi di lavorio sotterraneo tra l’Aie e l’ente Fiera, anzi ha preferito un ruolo defilato. Ma in molti lo considerano uno dei tessitori più accorti, insieme a un altro protagonista che preferisce stare nelle retrovie. È destinato alla quinta fila Gian Arturo Ferrari, tre file dietro Selva Coddè. Quello è il posto che gli è stato assegnato dal cerimoniale, ma Ferrari arriva tardi e resta in piedi. È uno dei personaggi-chiave del mercato dei libri, una solida esperienza nell’editoria di qualità, tanti anni al vertice di Mondadori, poi bruscamente scaricato e infine recuperato alla vigilia dell’acquisizione di Rcs. Ora sembra essere il coach del nuovo salone milanese, ma rigorosamente nell’ombra. Non rilascia dichiarazioni, anzi cede platealmente il passo a Selva Coddè, assecondando rigide disposizioni aziendali. Ma in fondo il festeggiato sembra essere proprio lui, il professor Ferrari: dispensa buffetti e carezze a un’ossequiosa fila di questuanti, stringe in un abbraccio Chiara Valerio, è incoraggiante con Gorgani. Non potrà che andare bene, è il mantra ripetuto a tutti. Una giornata storica.
Si fa finta di essere sani, al terzo piano di Palazzo Reale, dimenticando i litigi, le secessioni delle scorse settimane. Dimenticando la figuraccia internazionale, con due saloni vicini nel tempo e nello spazio. Cosa vuoi che contino quei marchi che continuano a restare aggrappati al Lingotto. Non importa se sono una parte essenziale del mondo culturale italiano (da Sellerio a e/o); nel comitato scientifico della nuova fiera c’è Antonio Monaco, il presidente dei piccoli editori. E ci sono anche le biblioteche con Stefano Parise (che è il direttore del sistema bibliotecario di Milano) e ci sono i librai grazie ad Alberto Galla, il presidente dell’Ali. Cosa si vuole di più? L’organigramma è stato studiato a puntino. Anzi, di più: dentro la fiera sarà ospitata una biblioteca, simbolo della comunità del libro più ampia. E nel 2018 la promozione della lettura arriverà al Sud. E il programma? Ancora presto, dice Gorgani.
Il nuovo salone di Rho aspira a essere molte cose insieme. Un po’ Fiera di Francoforte, piazza internazionale dove scambiare diritti (direttore dell’area professionale è Giovanni Peresson). Un po’ salone interattivo, rivolto soprattutto alla marea dei non lettori, con il pubblico coinvolto in un ruolo attivo. Un po’ “Libri Come”, del libro si racconteranno i modi di produzione intellettuale e artigianale. Un po’ Salone digitale con il coinvolgimento dei blogger, dei wikipedisti e della rete. Un po’ anche BookCity, con la fiera che esce dai locali di Rho-Pero per estendere alla città le sue pratiche di lettura. E qui si apre un piccolo giallo che investe la manifestazione già sperimentata da quattro anni a Milano. Gorgani annuncia l’accordo siglato con BookCity mentre il comunicato parla più prudentemente di una disponibilità a trovare un’intesa. Segno che anche qui ci sarà da lavorare.
Non potrà che essere un successo. Lo ripete anche Federico Motta, forse per darsi coraggio. Spericolato appare il percorso sin qui seguito dal presidente dell’Aie: l’associazione spaccata in tanti pezzi, il divorzio brusco dal Salone torinese, la porta sbattuta in faccia ai ministri Franceschini e Giannini. «Abbiamo fatto una scelta di libertà. Si può organizzare un grande evento senza chiedere contributi pubblici», dice Motta. L’investimento iniziale sarà intorno a due o tre milioni di euro. «I primi due anni saranno in perdita», prevede Corrado Peraboni, l’amministratore delegato di Fiera Milano. «Al terzo contiamo nel pareggio, con un’affluenza di pubblico di circa 100.000 persone». Insomma vogliono fare da soli, gli editori raccolti a Palazzo Reale. Di Torino preferiscono non parlare più. Ormai alle spalle, esperienza dimenticata. Con una piccola perfidia ben studiata: il posto d’onore lasciato a Guido Accornero, l’inventore della manifestazione che ha portato il Lingotto al successo. «È un grande dolore questo divorzio», confessa. «Ma è evidente come va a finire: la burocrazia non può vincere». Per Torino non è un buon messaggio, forse quello che fa più male.