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 2016  ottobre 06 Giovedì calendario

Theresa May, la conservatrice che guarda a sinistra

Theresa May arriva sul palco dell’Icc di Birmingham sulle note di «Start Me Up» dei Rolling Stone. Per spezzare l’emozione le basta una battuta. Si rivolge a Boris Johnson chiedendogli se riesce a restare per quattro giorni consecutivi concentrato sul messaggio da portare. «Start me Up», accendimi. May parla per 56 minuti illustrando il suo Regno Unito e sembra mettere in mano ai suoi le armi per portare a termine la missione. Che non è solo la Brexit, è ridisegnare il Paese, dall’istruzione alle politiche fiscali, dalla sanità alla sicurezza. Domenica ha mostrato all’Unione europea che non ci sono piani B, che «Brexit means Brexit» e che lei è arrivata al 10 di Downing Street per portare a compimento il voto con cui 17 milioni di britannici hanno detto di chiudere con l’esperienza europea dopo 43 anni. Ieri il primo ministro da 84 giorni ha parlato al Regno Unito guardando oltre lo steccato tradizionale dei conservatori. Cercando anzi di conquistare altri territori.
Ringraziando all’inizio David Cameron, lo ha chiuso nell’album dei ricordi. Il suo conservatorismo sarà diverso, sociale, niente Big Society, comunità che si autoregolano. Elogia lo Stato interventista, «serve per portare equilibrio e giustizia laddove individui, società e mercato da soli non riescono». Schiaffeggia i manager, «non hanno fatto sacrifici dopo la crisi, quella l’hanno pagata gli altri, i comuni cittadini», e li mette sull’attenti (non solo loro): chi non paga le tasse verrà inseguito da questo governo. Cita la Thatcher («ci ha insegnato a seguire i sogni»), Churchill e Disraeli e a sorpresa un premier laburista, Clement Attlee, quello della ricostruzione.
Poi si erge a paladino dei lavoratori. È qui che May va a caccia del nuovo centro gravitazionale. Vuole un governo incisivo, «che faccia cose buone» e un Partito conservatore alla stregua di un Partito della nazione che si espande a destra e a sinistra, socialmente inclusivo, ricchi e poveri, periferia, cittadine, campagne e Londra. Lì si annidano le élite liberal, «più attente ai rapporti internazionali che alla gente della strada». Per questo May dice: «Siamo noi il partito dei lavoratori», una frase che solo qualche lustro fa avrebbe fatto gridare allo scandalo. D’altronde i laburisti, titolari del marchio «partito dei lavoratori», dice «sono divisi e divisivi», «sono un partito dell’odio». Quando parla di disuguaglianza e laburisti alza un po’ i toni. «Basta con questa presunta superiorità morale, non sono loro i monopolisti della compassione».
Theresa May ha le idee chiare. «Il cambiamento sta arrivando», dice (è la frase con più ripetizioni, dieci) e l’idea di come sarà il Regno Unito fra qualche anno, quando la Brexit sarà nero su bianco e non solo sulle schede elettorali, sembra stampata nella mente del Primo ministro. Ha una visione «ma senza determinazione, le visioni non servono» dice in uno dei passaggi del suo discorso più apprezzati. «È come un medico» la descrive uno che con lei ha lavorato molto. «Osserva, fa gli esami, e poi la diagnosi, quindi agisce». Non vuole rompere con Bruxelles e lo dice con chiarezza quando auspica scambi di beni e servizi in un mercato unico. «Brexit non significa solo riprendersi il controllo dei confini, è altro, è la possibilità di creare qui il nostro destino». È ferma nel ricordare che non vuole che gli inglesi siano soggetti alle leggi europee, che sia quella sui diritti umani o quella sulla libera circolazione.
Non serve fantasia, basta passare in rassegna non solo i suoi discorsi, ma anche quelli dei suoi ministri, per capire che il Regno Unito di May sarà meno aperto all’immigrazione e selettivo sugli ingressi, sarà teso alla ricerca dell’eccellenza in campo universitario e medico, volto a mantenere la leadership sui mercati finanziari e capace di stare al mondo e di relazionarsi con Paesi immensi grazie a un mix di innovazione e tradizione che affonda le radici nella storia. Proverà a ridurre le diseguaglianze. «Voglio un Paese dove ci sia opportunità e meritocrazia. Dove chiunque, non importa da dove venga e di chi sia figlio, abbia le stesse chance di riuscire». Per questo nel mondo di Theresa May serve il governo. Il suo.