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 2016  ottobre 02 Domenica calendario

Dai dati sul lavoro non si capisce granché

I dati del mercato del lavoro usciti venerdì, essendo relativi a un mese speciale come agosto, non potevano e non possono dirci granché. L’incremento di occupazione rispetto a luglio (+13mila addetti) è al limite della significatività statistica, e non basta a compensare il calo registrato a luglio (-63mila); anche il numero di disoccupati è sostanzialmente stazionario, e così il numero degli inattivi.
In questa situazione di calma piatta, quello su cui possiamo ragionare sono le tendenze di fondo del mercato del lavoro negli ultimi 2-3 anni al di là delle fluttuazioni dei singoli mesi. Ebbene, se proviamo a ripercorrere i circa 30 mesi che ci separano dal periodo più buio della crisi, quello che emerge sono soprattutto tre grandi movimenti. Il primo è la ripresa dell’occupazione degli italiani che, a differenza degli stranieri, fino al 2013 avevano visto ogni anno ridursi il numero dei posti di lavoro.
Continua pagina 16 Continua da pagina 1 Nel corso degli ultimi due anni, finalmente, sono aumentati non solo i posti di lavoro degli stranieri ma anche quelli degli italiani.
Il secondo movimento è l’aumento del tasso di occupazione complessivo, che da un paio d’anni è in costante anche se assai lento aumento. Fatta 100 la popolazione di età superiore ai 15 anni il tasso di occupazione era 46 nel 2007, era sceso a circa 42 nel 2013, è risalito a livello 44 negli ultimi 12 mesi. Siamo ancora lontani dai livelli precrisi (manca circa 1 milione di posti di lavoro), ma il trend positivo dura ormai da oltre due anni, e produce effetti benefici sui bilanci familiari. Le famiglie in difficoltà, che a fine mese devono ricorrere ai risparmi o indebitarsi, sono ancora a un livello preoccupante (20%, contro il 15% degli anni pre-crisi), ma sono molto diminuite rispetto al picco raggiunto nel 2012-2013. È verosimile che la boccata di ossigeno che da tempo si registra nei bilanci familiari sia l’effetto di una serie di fatti concomitanti: il bonus da 80 euro, l’aumento dei posti di lavoro, la diminuzione dei prezzi e la conseguente dinamica positiva dei salari reali.
Il terzo movimento è l’evoluzione del tasso di occupazione precaria. Comunque lo si calcoli, ovvero includendo o escludendo le collaborazioni, prendendo o no in considerazione il lavoro accessorio (ossia i voucher), la tendenza prevalente, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, è all’aumento della quota di lavoratori precari. Se il tasso di occupazione precaria viene calcolato sui soli lavoratori dipendenti, siamo addirittura al massimo storico (da quando esistono i dati necessari per il calcolo, ossia dal 2004): nel corso del 2016 il tasso di occupazione precaria ha superato il picco che aveva toccato ai tempi del governo Monti. Se, più correttamente, includiamo nel lavoro precario anche le collaborazioni (che il Jobs Act ha disincentivato), e calcoliamo il tasso sul totale degli occupati, la dinamica è un po’ più lenta, ma restiamo comunque vicinissimi al massimo toccato circa tre anni fa. Se poi nel calcolo includiamo anche i voucher, che hanno visto una vera e propria esplosione negli ultimi due anni, il quadro si fa ulteriormente preoccupante. Ci si potrebbe chiedere come mai, nonostante l’intenzione di sconfiggere il precariato, le cose stiano andando nella direzione opposta a quella auspicata. Una ragione è certamente la fine della decontribuzione totale, che ha reso assai meno convenienti dell’anno scorso le trasformazioni dei rapporti di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato. Una seconda ragione, spesso dimenticata, è che del pacchetto di provvedimenti del governo Renzi sul mercato del lavoro ha fatto parte anche il decreto Poletti (marzo 2014) che, permettendo varie iterazioni dei contratti a tempo determinato, ha reso assai più appetibile il ricorso ad essi da parte delle imprese.
C’è però, forse, anche un’ultima ragione, questa meno inquietante delle altre: storicamente, in Italia, l’andamento del tasso di occupazione precaria ha un forte profilo prociclico. La quota di lavoratori precari tende ad espandersi quando l’economia va bene, perché le imprese, nel timore che la ripresa possa rivelarsi effimera, preferiscono ricorrere a contratti di lavoro reversibili; e viceversa tende a contrarsi quando l’economia va male, perché solo i lavoratori stabili riescono a difendere il posto di lavoro.
Da questo punto di vista l’aumento del tasso di occupazione precaria è un tipico segnale double face, o ambivalente: negativo perché segnala un peggioramento della qualità dei posti di lavoro, positivo perché tende ad associarsi a una congiuntura favorevole.
E in questo momento?
In questo momento, ovvero negli ultimissimi mesi, il tasso di occupazione precaria sta dando segni di stabilizzazione, a riprova che la breve stagione di ripresa conosciuta nella prima metà del 2016 volge al termine.