Corriere della Sera, 4 ottobre 2016
Fratelli Lumière, 114 film in uno. Un viaggio dentro il cinema stesso
Non sono proprio inediti, a essere pignoli, ma sono sicuramente una novità. Parlo dei 114 film dei fratelli Lumière che la Cineteca di Bologna presenta a ottobre in una settantina di sale italiane, riuniti in un «film» di un’ora e mezza circa – Lumière! – commentato dalla voce di Valerio Mastandrea e accompagnato dalle musiche di Camille Saint-Saëns: un viaggio meraviglioso e appassionante non solo alle origini del cinema ma dentro il cinema stesso. Per sfatare una volta per tutte i pregiudizi sul cinema delle origini, sul cinema muto, sul cinema documentario e su tanti altri luoghi comuni che negli anni si sono incrostati addosso ai padri fondatori della settima arte. Perché proprio di arte si tratta. E della più grande.
A partire dal marzo 1895 – il 19 secondo gli studi meteorologici di Bernard Chardère, perché c’era il sole – i fratelli Louis e Auguste Lumière iniziano a utilizzare la loro invenzione (che non si chiama ancora cinématographe ma più genericamente «apparecchio che serve a ottenere e a guardare prove cronofotografiche») filmando l’uscita degli operai dalle loro officine di Lione, in chemin Saint Victor, poi ribattezzato nel 1924 rue du Premier Film. Non la filmano una volta sola quella uscita ma almeno tre, in tre giorni differenti – il che fa dei due fratelli anche gli inventori del «remake» – e poi la proiettano il 22 marzo a Parigi, di fronte a un gruppo di scienziati.
Il successo li spinge a continuare e a produrre altre «vedute» (non si chiamano ancora film), ognuna impressionata su 17 metri di pellicola che, fatta scorrere rigorosamente a mano, a 16/18 fotogrammi al secondo, permetteva di realizzare un «film» di 50 secondi.
Quando hanno raccolto un po’ di materiale i due fratelli organizzano la prima proiezione pubblica a pagamento, quella al Grand Café del boulevard des Capucines, a Parigi, il 28 dicembre 1895: non c’è ancora il famoso Arrivée d’un train en gare de La Ciotat (fu girato l’anno dopo, nel 1896) ma c’era, oltre alle già celebri Uscite, anche L’innaffiatore innaffiato, La colazione del bimbo (che poi era la figlia di Auguste, Andrée) e I maniscalchi (dove un fabbro lavorava in camicia bianca e cravatta). In totale dieci «vedute», che quel sabato entrato nella storia attirano 33 spettatori paganti, tra cui Georges Méliès che di lì a qualche tempo sarebbe diventato l’altro «padre» del cinema.
Il successo, e lo spirito imprenditoriale dei due fratelli, spinge i Lumière a spedire in giro per il mondo i primi operatori per riportare in Francia vedute di Paesi lontani e testimonianze di fatti storici (come l’incoronazione dello zar Nicola II). Ne sono rimasti poco meno di 1.500 di quelle «vedute», che la Cineteca di Lione ha iniziato a restaurare: da questo materiale il suo direttore Thierry Frémaux (che poi è anche il direttore del festival di Cannes) ha tratto il film Lumière! che ne assembra 114, tutti girati tra il 1895 e il 1905, commentati – quando serve – per spiegare i retroscena delle riprese, le caratteristiche tecniche o le curiosità cinematografiche. C’è molto da vedere e da scoprire, soprattutto come il cinema impara a crescere «inventando» le prime gag, i primi trucchi, le prime panoramiche, i primi carrelli verticali (sfruttando gli ascensori della Tour Eiffel). Ma quello che colpisce è soprattutto l’eleganza e la bellezza delle riprese (che il restauro in 4K fatto all’Immagine ritrovata di Bologna restituisce in tutto il suo splendore). Ognuna di quelle «vedute» è inquadrata con un’attenzione all’equilibrio delle forme, alla fuga delle linee prospettiche, al rapporto tra i vari piani che lascia a bocca aperta. Di «primitivo» non c’è assolutamente niente, anzi.
Quando Bertolucci o Walsh o Leone «citano» il famoso arrivo del treno inquadrandolo nello stesso modo (lungo una diagonale che taglia il fotogramma con la precisione di un disegno di Dürer) non fanno solo un omaggio cinefilo ma confermano che non esiste una posizione più efficace e più elegante per piazzare la macchina da presa in una stazione, cioè che non esiste un’inquadratura più cinematografica. Perché non esiste cinema più cinema.