«Non amo la competizione e cercavo un campo di studi un po’ defilato. Ho pensato che l’auto-distruzione delle cellule fosse un settore interessante» ha spiegato l’emozionato biochimico giapponese, 71 anni, un laboratorio all’Istituto di Tecnologia di Tokyo e da oggi anche un premio da 834mila euro in tasca. Ha visto giusto: l’autofagia ha ottenuto il terzo Nobel da quando il premio è stato istituito, nel 1901.
Il meccanismo con cui le cellule distruggono i loro materiali di scarto, le proteine che non servono più e gli organelli che hanno smesso di funzionare è come un buon servizio di smaltimento rifiuti per una città: di vitale importanza. Se tutto funziona bene, nessuno si accorge della sua esistenza. Se il servizio si ingolfa, è la paralisi.
Così è per la cellula. L’autofagia le permette di liberarsi degli scarti, ma anche di riutilizzarli all’occorrenza, facendo una sorta di “raccolta differenziata”. Li sfrutta per creare energia nei tempi di magra. Elimina quelle proteine di cui l’embrione non ha più bisogno per il suo sviluppo. Evita che muscoli e nervi restino intossicati dai prodotti di scarto del metabolismo. Distrugge i resti di virus e batteri che avevano infettato l’organismo. Ma soprattutto - ed è forse l’aspetto che più affascina - argina il processo di invecchiamento, con quel suo continuo buttar via dei materiali danneggiati per ”distruggere” l’usato e “ricostruire” il nuovo. Per questo un cattivo funzionamento dell’autofagia provoca malattie tipiche della terza età come tumori, diabete, Parkinson e altre degenerazioni del sistema nervoso.
Se il percorso scientifico di Ohsumi è stato sempre lontano dai sentieri battuti, così è stata anche la scelta del Comitato Nobel, che fa capo al Karolinska Institutet di Stoccolma. L’autofagia è un settore della ricerca di base che non ha ancora grandi applicazioni pratiche. Coniata nel 1963, la parola è rimasta per decenni confinata nei laboratori, dove ricercatori come Ohsumi si consumavano nell’osservare geni e proteine nel profondo delle cellule. «È una sorta di pulizia di primavera che dura 365 giorni all’anno» spiega in un video divulgativo fra coreutica e scienza Daniel Klionsky, biologo dell’università del Michigan. «Quando ho cominciato a fare ricerca, non c’era nessuna garanzia che questo campo potesse contribuire alla cura del cancro o all’aumento della longevità» ha spiegato Ohsumi. «Non è quello il motivo per cui ho iniziato e spero che la gente capisca che così funziona la ricerca di base».
Lo scienziato giapponese ha scoperto nel 1993 quindici geni che dirigono la danza dei rifiuti e degli organi-spazzino all’interno delle cellule di lievito. «È divertente lavorare senza sapere dove si andrà a parare » ha raccontato ancora nella conferenza stampa organizzata in fretta e furia dalla sua università.
«Senza la scienza di base non avremmo conoscenze importantissime per la medicina moderna » ha confermato Carlo Alberto Redi, direttore del laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’università di Pavia. «L’autofagia è particolarmente importante perché avviene in ogni essere vivente complesso, e in ogni fase della vita, dall’embrione alla senescenza ». Quando lo scienziato giapponese dal sorriso facile ha iniziato a occuparsene, alla fine degli anni ‘70, sull’argomento uscivano una ventina di articoli all’anno. «Oggi saranno almeno 5mila» ha raccontato Ohsumi, diventato nel frattempo un vero e proprio patriarca del settore.
Fra questi 5mila, molti sono gli studi italiani. «I nostri scienziati hanno esteso gli esperimenti di Ohsumi» ha raccontato il rettore dell’università di Tor Vergata a Roma, il genetista Giuseppe Novelli. «Ricercatori italiani hanno isolato nuovi geni legati all’autofagia e hanno scoperto che alcune disfunzioni di questo processo sono alla base di malattie neurodegenerative come Corea di Huntington, Alzheimer e Parkinson». I neuroni, «se privi di un sistema efficace di riciclo, soffrono e muoiono » spiega Gianvito Martino, nuovo direttore scientifico del San Raffaele di Milano. Anche Telethon, soprattutto nel suo istituto Tigem di Napoli, si è concentrato sulla scoperta dei “geni spazzini” che sono alla base di alcune malattie genetiche rare, aggiunge Francesca Pasinelli, direttrice della Fondazione. Mario Chiariello, ricercatore dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, sottolinea però che l’autofagia può essere un’arma a doppio taglio: «Permette infatti alla cellula tumorale di resistere allo stress causato dai trattamenti e di sopravvivere ai farmaci». Come Giano bifronte, il meccanismo «ci protegge dall’invecchiamento, ma offre un grande aiuto alle cellule del cancro in un momento critico come la formazione delle metastasi, quando si staccano dal loro substrato e hanno un gran bisogno di energia» spiega Pier Giuseppe Pelicci, responsabile del programma di ricerca sui meccanismi molecolari di tumori e invecchiamento all’Ifom-Ieo di Milano. La scoperta dei geni che regolano l’autofagia «ci ha permesso di individuare dei potenziali farmaci che stiamo testando contro il cancro» prosegue Pelicci.
Ogni giorno il nostro organismo si libera di 200-300 grammi di proteine di scarto. Con l’alimentazione ne reintroduciamo circa 70 grammi. Il resto proviene dagli organelli delle cellule che si occupano del riciclaggio. Ma per quanto importanti siano i contributi italiani alla ricerca sull’autofagia, sottolinea Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, «per riportare il Nobel nel nostro paese occorre un maggiore investimento in ricerca di base. Al momento sono Stati Uniti, Giappone e Cina a ottenere questi risultati».
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Valeria Pini per la Repubblica
Era nell’aria che uno dei possibili argomenti per il Nobel della Medicina fosse l’autofagia». Dopo l’annuncio della vittoria di Yoshinori Ohsumi, non si stupisce Claudio Franceschi, che da tempo studia i processi di invecchiamento all’Università di Bologna. «Da diversi anni abbiamo capito che il processo di “smaltimento dei rifiuti” è per le cellule del nostro corpo altrettanto importante della capacità di sintetizzare nuove proteine. È un passaggio critico per la loro sopravvivenza.
Sono studi che aiuteranno a comprendere i meccanismi dell’invecchiamento?
«Certamente. Sappiamo che una cellula con un elevato livello di autofagia è più resistente agli stress e di conseguenza più forte. L’attivazione dell’autofagia è un sistema molto efficace per rallentare l’invecchiamento in modelli animali e ci sono ottime speranze che possa esserlo anche per l’uomo. Quindi studiare l’autofagia può aiutare a capire come e perchè le cellule invecchiano».
Esistono dei medicinali che sfruttano queste scoperte?
«Sì, esistono farmaci come la rapamicina e i suoi analoghi, attualmente utilizzati come farmaci anti-rigetto per i trapianti d’organo. Inducono l’attivazione dell’autofagia, e di conseguenza sono visti come trattamenti promettenti per ottenere un rallentamento generale del processo di invecchiamento. Un domani forse non molto lontano potremo avere grazie a queste scoperte una pillola antiage»
La cellula può essere “ringiovanita” anche seguendo determinati stili di vita?
«Anche stili di vita, come il digiuno o la restrizione calorica, possono influenzare positivamente l’autofagia. Ovviamente è difficile che un singolo trattamento possa risolvere tutti i problemi legati all’invecchiamento e alle malattie ad esso correlate, ma certamente questa scoperta è un tassello importante per arrivare a vivere più sani e più a lungo».
Perché la ricerca di base, come quella di Ohsumi, è una priorità in medicina?
«Perché è libera da postulati di partenza o da ipotesi da dimostrare. In questo modo vengono fatte le scoperte più importanti, come ci dice la storia. Lo studio sull’autofagia è un ottimo esempio di ricerca di base. Come diceva Isaac Asimov, la frase più interessante da sentire quando uno scienziato fa una scoperta non è “Eureka”, ma invece “that’s funny”».
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Valeria Pini per la Repubblica
Era nell’aria che uno dei possibili argomenti per il Nobel della Medicina fosse l’autofagia». Dopo l’annuncio della vittoria di Yoshinori Ohsumi, non si stupisce Claudio Franceschi, che da tempo studia i processi di invecchiamento all’Università di Bologna. «Da diversi anni abbiamo capito che il processo di “smaltimento dei rifiuti” è per le cellule del nostro corpo altrettanto importante della capacità di sintetizzare nuove proteine. È un passaggio critico per la loro sopravvivenza.
Sono studi che aiuteranno a comprendere i meccanismi dell’invecchiamento?
«Certamente. Sappiamo che una cellula con un elevato livello di autofagia è più resistente agli stress e di conseguenza più forte. L’attivazione dell’autofagia è un sistema molto efficace per rallentare l’invecchiamento in modelli animali e ci sono ottime speranze che possa esserlo anche per l’uomo. Quindi studiare l’autofagia può aiutare a capire come e perchè le cellule invecchiano».
Esistono dei medicinali che sfruttano queste scoperte?
«Sì, esistono farmaci come la rapamicina e i suoi analoghi, attualmente utilizzati come farmaci anti-rigetto per i trapianti d’organo. Inducono l’attivazione dell’autofagia, e di conseguenza sono visti come trattamenti promettenti per ottenere un rallentamento generale del processo di invecchiamento. Un domani forse non molto lontano potremo avere grazie a queste scoperte una pillola antiage»
La cellula può essere “ringiovanita” anche seguendo determinati stili di vita?
«Anche stili di vita, come il digiuno o la restrizione calorica, possono influenzare positivamente l’autofagia. Ovviamente è difficile che un singolo trattamento possa risolvere tutti i problemi legati all’invecchiamento e alle malattie ad esso correlate, ma certamente questa scoperta è un tassello importante per arrivare a vivere più sani e più a lungo».
Perché la ricerca di base, come quella di Ohsumi, è una priorità in medicina?
«Perché è libera da postulati di partenza o da ipotesi da dimostrare. In questo modo vengono fatte le scoperte più importanti, come ci dice la storia. Lo studio sull’autofagia è un ottimo esempio di ricerca di base. Come diceva Isaac Asimov, la frase più interessante da sentire quando uno scienziato fa una scoperta non è “Eureka”, ma invece “that’s funny”».
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