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 2016  ottobre 04 Martedì calendario

Il premio Nobel per la Medicina è andato a Yoshinori Ohsumi, 71enne giapponese che ha scoperto i meccanismi dell’autofagia

Adriana Bazzi per il Corriere della Sera
Per tradurre, in un linguaggio pop, la motivazione con cui quest’anno il settantu- nenne scienziato giapponese Yoshinori Ohsumi si è aggiu-dicato, da solo, il Nobel per la fisiologia e la medicina si potrebbe dire così: «Per avere scoperto come ogni cellula degli organismi viventi ricicla, al suo interno, i rifiuti che produce ogni giorno con il suo lavoro. E riesce a sopravvivere».
Insomma: le cellule sono, per loro natura intrinseca, ecologiche e non soccombono alla spazzatura che producono.
Ecco, invece, la più dotta e sintetica giustificazione ufficiale, dell’Assemblea del Karolinska Institutet di Stoccolma che assegna il Premio: «Per le sue scoperte sui meccanismi dell’autofagia».
L’autofagia (etimologicamente significa «mangiare se stesso») è un meccanismo biologico, studiato fin dagli anni Cinquanta, e già premiato con un Nobel al belga Christian de Duve, nel 1974, per la scoperta dei lisosomi, organelli della cellula capaci, appunto, di distruggere prodotti di scarto.
Ma Ohsumi ha fatto di più: ha studiato i geni che regolano l’autofagia, concentrandosi sulle cellule di un piccolo microrganismo, il lievito del pane. E ha scoperto che, quando questi geni sono alterati, i rifiuti si accumulano e possono dare origine a diverse patologie: dal diabete al morbo di Parkinson, dalla malattia di Huntington al cancro. E promuovere l’invecchiamento. Adesso la sfida è sfruttare queste conoscenze per trovare nuove cure.
Quelle di Ohsumi, unico vincitore – si accaparra 933 mila dollari, circa 830 mila euro – in controtendenza rispetto alla politica degli ultimi anni che ha visto premiati, nella maggior parte delle edizioni, triadi di scienziati, sono ricerche di base non immediatamente trasferibili alla pratica clinica. Il neo-Nobel, infatti, dopo una laurea all’Università di Tokyo e una breve esperienza negli Stati Uniti alla Rockefeller University di New York, ricopre attualmente la carica di professore al Tokyo Institute of Technology’s Frontier Research Center, dedicato per l’appunto alle ricerche di frontiera.
Il suo Nobel è un po’ inaspettato. Forse l’Assemblea del Karolinska, quest’anno, ha voluto prendere le distanze da scelte con implicazioni politiche ed etiche.
L’anno scorso il riconoscimento alla ricercatrice cinese To Youyou (meritatissimo, per le sue scoperte di un farmaco antimalarico derivato dalla medicina tradizionale cinese) non ha suscitato troppi entusiasmi in madrepatria. Quest’anno, una ricerca in pole position per il Nobel su una nuova tecnica di manipolazione del Dna, il Crispr-Car9, oggetto di contese brevettuali oltre che di critiche da chi la vede come pericolosa manipolazione del vivente, non è stata presa in considerazione.
Non dimentichiamoci, poi, che due membri dell’Accademia svedese per i Nobel si sono dimessi, nel settembre scorso, per avere supportato il discusso chirurgo italiano, Paolo Macchiarini, finito nel mirino con l’accusa di aver falsificato i dati di alcune operazioni su trapianti di trachea con cellule staminali, mentre lavorava proprio al Karolinska.
Insomma un Nobel, edizione 2016, che si richiama alla scienza pura, è politicamente asettico e non cerca clamori mediatici.

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Elena Dusi per la Repubblica

«Il corpo umano è sempre in equilibrio fra costruzione e disfacimento. In fondo, è quello che intendiamo con la parola vita». Così Yoshinori Ohsumi, fresco vincitore del Nobel per la medicina, ha definito in modo semplice il suo campo di ricerca: l’autofagia. Un termine che - rivela un sondaggio del Comitato svedese che assegna i premi una persona su tre non aveva mai sentito in vita sua.
«Non amo la competizione e cercavo un campo di studi un po’ defilato. Ho pensato che l’auto-distruzione delle cellule fosse un settore interessante» ha spiegato l’emozionato biochimico giapponese, 71 anni, un laboratorio all’Istituto di Tecnologia di Tokyo e da oggi anche un premio da 834mila euro in tasca. Ha visto giusto: l’autofagia ha ottenuto il terzo Nobel da quando il premio è stato istituito, nel 1901.
Il meccanismo con cui le cellule distruggono i loro materiali di scarto, le proteine che non servono più e gli organelli che hanno smesso di funzionare è come un buon servizio di smaltimento rifiuti per una città: di vitale importanza. Se tutto funziona bene, nessuno si accorge della sua esistenza. Se il servizio si ingolfa, è la paralisi.
Così è per la cellula. L’autofagia le permette di liberarsi degli scarti, ma anche di riutilizzarli all’occorrenza, facendo una sorta di “raccolta differenziata”. Li sfrutta per creare energia nei tempi di magra. Elimina quelle proteine di cui l’embrione non ha più bisogno per il suo sviluppo. Evita che muscoli e nervi restino intossicati dai prodotti di scarto del metabolismo. Distrugge i resti di virus e batteri che avevano infettato l’organismo. Ma soprattutto - ed è forse l’aspetto che più affascina - argina il processo di invecchiamento, con quel suo continuo buttar via dei materiali danneggiati per ”distruggere” l’usato e “ricostruire” il nuovo. Per questo un cattivo funzionamento dell’autofagia provoca malattie tipiche della terza età come tumori, diabete, Parkinson e altre degenerazioni del sistema nervoso.
Se il percorso scientifico di Ohsumi è stato sempre lontano dai sentieri battuti, così è stata anche la scelta del Comitato Nobel, che fa capo al Karolinska Institutet di Stoccolma. L’autofagia è un settore della ricerca di base che non ha ancora grandi applicazioni pratiche. Coniata nel 1963, la parola è rimasta per decenni confinata nei laboratori, dove ricercatori come Ohsumi si consumavano nell’osservare geni e proteine nel profondo delle cellule. «È una sorta di pulizia di primavera che dura 365 giorni all’anno» spiega in un video divulgativo fra coreutica e scienza Daniel Klionsky, biologo dell’università del Michigan. «Quando ho cominciato a fare ricerca, non c’era nessuna garanzia che questo campo potesse contribuire alla cura del cancro o all’aumento della longevità» ha spiegato Ohsumi. «Non è quello il motivo per cui ho iniziato e spero che la gente capisca che così funziona la ricerca di base».
Lo scienziato giapponese ha scoperto nel 1993 quindici geni che dirigono la danza dei rifiuti e degli organi-spazzino all’interno delle cellule di lievito. «È divertente lavorare senza sapere dove si andrà a parare » ha raccontato ancora nella conferenza stampa organizzata in fretta e furia dalla sua università.
«Senza la scienza di base non avremmo conoscenze importantissime per la medicina moderna » ha confermato Carlo Alberto Redi, direttore del laboratorio di Biologia dello sviluppo dell’università di Pavia. «L’autofagia è particolarmente importante perché avviene in ogni essere vivente complesso, e in ogni fase della vita, dall’embrione alla senescenza ». Quando lo scienziato giapponese dal sorriso facile ha iniziato a occuparsene, alla fine degli anni ‘70, sull’argomento uscivano una ventina di articoli all’anno. «Oggi saranno almeno 5mila» ha raccontato Ohsumi, diventato nel frattempo un vero e proprio patriarca del settore.
Fra questi 5mila, molti sono gli studi italiani. «I nostri scienziati hanno esteso gli esperimenti di Ohsumi» ha raccontato il rettore dell’università di Tor Vergata a Roma, il genetista Giuseppe Novelli. «Ricercatori italiani hanno isolato nuovi geni legati all’autofagia e hanno scoperto che alcune disfunzioni di questo processo sono alla base di malattie neurodegenerative come Corea di Huntington, Alzheimer e Parkinson». I neuroni, «se privi di un sistema efficace di riciclo, soffrono e muoiono » spiega Gianvito Martino, nuovo direttore scientifico del San Raffaele di Milano. Anche Telethon, soprattutto nel suo istituto Tigem di Napoli, si è concentrato sulla scoperta dei “geni spazzini” che sono alla base di alcune malattie genetiche rare, aggiunge Francesca Pasinelli, direttrice della Fondazione. Mario Chiariello, ricercatore dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, sottolinea però che l’autofagia può essere un’arma a doppio taglio: «Permette infatti alla cellula tumorale di resistere allo stress causato dai trattamenti e di sopravvivere ai farmaci». Come Giano bifronte, il meccanismo «ci protegge dall’invecchiamento, ma offre un grande aiuto alle cellule del cancro in un momento critico come la formazione delle metastasi, quando si staccano dal loro substrato e hanno un gran bisogno di energia» spiega Pier Giuseppe Pelicci, responsabile del programma di ricerca sui meccanismi molecolari di tumori e invecchiamento all’Ifom-Ieo di Milano. La scoperta dei geni che regolano l’autofagia «ci ha permesso di individuare dei potenziali farmaci che stiamo testando contro il cancro» prosegue Pelicci.
Ogni giorno il nostro organismo si libera di 200-300 grammi di proteine di scarto. Con l’alimentazione ne reintroduciamo circa 70 grammi. Il resto proviene dagli organelli delle cellule che si occupano del riciclaggio. Ma per quanto importanti siano i contributi italiani alla ricerca sull’autofagia, sottolinea Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, «per riportare il Nobel nel nostro paese occorre un maggiore investimento in ricerca di base. Al momento sono Stati Uniti, Giappone e Cina a ottenere questi risultati».

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Valeria Pini per la Repubblica
Era nell’aria che uno dei possibili argomenti per il Nobel della Medicina fosse l’autofagia». Dopo l’annuncio della vittoria di Yoshinori Ohsumi, non si stupisce Claudio Franceschi, che da tempo studia i processi di invecchiamento all’Università di Bologna. «Da diversi anni abbiamo capito che il processo di “smaltimento dei rifiuti” è per le cellule del nostro corpo altrettanto importante della capacità di sintetizzare nuove proteine. È un passaggio critico per la loro sopravvivenza.
Sono studi che aiuteranno a comprendere i meccanismi dell’invecchiamento?
«Certamente. Sappiamo che una cellula con un elevato livello di autofagia è più resistente agli stress e di conseguenza più forte. L’attivazione dell’autofagia è un sistema molto efficace per rallentare l’invecchiamento in modelli animali e ci sono ottime speranze che possa esserlo anche per l’uomo. Quindi studiare l’autofagia può aiutare a capire come e perchè le cellule invecchiano».
Esistono dei medicinali che sfruttano queste scoperte?
«Sì, esistono farmaci come la rapamicina e i suoi analoghi, attualmente utilizzati come farmaci anti-rigetto per i trapianti d’organo. Inducono l’attivazione dell’autofagia, e di conseguenza sono visti come trattamenti promettenti per ottenere un rallentamento generale del processo di invecchiamento. Un domani forse non molto lontano potremo avere grazie a queste scoperte una pillola antiage»
La cellula può essere “ringiovanita” anche seguendo determinati stili di vita?
«Anche stili di vita, come il digiuno o la restrizione calorica, possono influenzare positivamente l’autofagia. Ovviamente è difficile che un singolo trattamento possa risolvere tutti i problemi legati all’invecchiamento e alle malattie ad esso correlate, ma certamente questa scoperta è un tassello importante per arrivare a vivere più sani e più a lungo».
Perché la ricerca di base, come quella di Ohsumi, è una priorità in medicina?
«Perché è libera da postulati di partenza o da ipotesi da dimostrare. In questo modo vengono fatte le scoperte più importanti, come ci dice la storia. Lo studio sull’autofagia è un ottimo esempio di ricerca di base. Come diceva Isaac Asimov, la frase più interessante da sentire quando uno scienziato fa una scoperta non è “Eureka”, ma invece “that’s funny”».

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