Corriere della Sera, 4 ottobre 2016
La Colombia ha votato No alla pace tra Stato e Farc
La Colombia ha votato No alla pace, per ora. Con un margine minimo – 6.419.759 voti (50,21%) contro 6.359.643 (49,78%) – gli elettori domenica hanno respinto a sorpresa gli accordi sottoscritti fra il governo di Juan Manuel Santos e le Farc per porre fine al conflitto iniziato 52 anni fa, il più lungo dell’America latina.
Ha vinto il fronte guidato dall’ex presidente conservatore Álvaro Uribe, che fino all’ultimo ha tuonato contro l’«impunità» concessa alla guerriglia. Ma ha vinto soprattutto l’astensionismo (oltre il 60%) e l’inerzia di un Paese sempre più polarizzato fra le aree rurali, che più hanno sofferto gli orrori della guerra civile – e hanno in maggioranza scelto il Sì —, e le regioni centrali, più urbanizzate, dove hanno invece prevalso il rancore o l’apatia. Solo a Bogotà, Barranquilla e Cali è passato il Sì.
Il processo di pace comunque non si ferma. Lo ha garantito il presidente Santos che ha subito convocato a Palacio de Nariño, sua sede ufficiale, tutte le parti politiche (ma Uribe non si è presentato). E poco dopo anche il comandante delle Farc, Rodrigo Londoño «Timochenko», ha detto dall’Avana, dove si sono svolti per quattro anni i negoziati, che la guerriglia continuerà a rispettare il cessate il fuoco. «Questo esito esige da noi un impegno ancora più forte – ha detto —, perché ora bisogna offrire diverse letture ed analisi di quello che è successo, per vedere cosa c’è da correggere».
Nessuno si aspettava il risultato, e lo conferma il fatto che nei palazzi del potere non era stato preparato un Piano B in caso di sconfitta al plebiscito. Qualcuno ha dato la colpa alle piogge violente che l’uragano Matthew ha scaricato sulla regione del Caribe, ma la verità è che il No ha vinto in zone dove gli analisti assicuravano una facile vittoria del «fronte pacifista». Non è bastata la stretta di mano fra i due ex nemici, Santos e Timochenko, alla firma solenne della pace, lo scorso 26 settembre, né i sorrisi alle loro spalle di Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu che aveva garantito la sua supervisione, e del segretario di Stato Usa John Kerry.
Ha vinto il sospetto. «La pace crea illusione», ha ribadito ieri il senatore Uribe, pur dicendosi però disponibile a un «grande patto nazionale» con Santos, che era ministro della Difesa sotto la sua presidenza.
Oltre al disarmo dei circa 7000 guerriglieri, che avrebbero dovuto auto-confinarsi in venti zone transitorie di «normalizzazione», gli accordi prevedevano una riforma agraria, la partecipazione politica degli ex ribelli, «senza rappresaglia», generosi aiuti economici per il loro reinserimento nella vita civile, un programma nazionale di sostituzione delle coltivazioni di coca e un’ampia amnistia. È stato quest’ultimo punto – assieme al prospettato aumento delle tasse per coprire i costi del processo – a convincere molti colombiani a rifiutare questa pace. I ribelli e i militari che avessero confessato i loro crimini di guerra in base all’accordo avrebbero infatti evitato il carcere, tranne che per i delitti più gravi, puniti al massimo con pene tra i 5 e gli 8 anni.
Santos ha riconosciuto subito la sconfitta, ma si è sforzato di mostrarsi sereno: in fondo, ha detto, «tutti, senza eccezioni, vogliono la pace».