Corriere della Sera, 1 ottobre 2016
Il museo dei camorristi
2002, Amsterdam, Van Gogh Museum. Vengono trafugati due Van Gogh del periodo giovanile: «La spiaggia di Schaveningen» e «L’uscita dalla chiesa protestante di Nuenen». Quattordici anni dopo. Quei dipinti di piccolo formato (valutati circa 100 milioni) sono stati ritrovati. Dopo un lungo pedinamento, ieri la Guardia di Finanza li ha scoperti in una delle case di un ras del narcotraffico internazionale, Raffaele Imperiale, latitante a Dubai. Dov’erano? In un anonimo locale della provincia di Napoli, a Castellammare di Stabia.
Dunque, due gioielli «dimenticati» alle pareti di uno squallido ambiente. Che potrebbe essere considerato come un’ulteriore sala di quella sorta di invisibile, misterioso e amplissimo museo che custodisce i tesori delle mafie. Quel museo è disseminato un po’ ovunque nel mondo. Si arricchisce continuamente. È come una pinacoteca diffusa, alle cui stanze non è possibile accedere. Vi si incontrano dipinti, sculture, reperti archeologici. Una kunstahalle senza pareti né confini, dietro cui si nascondono trascuratezze museali e ricchezze illegali.
Da un lato, l’insufficienza degli impianti di sicurezza nella maggior parte dei musei. Dall’altro, i mandanti dei furti eccellenti, convinti che l’arte possa generare guadagni immediati. Spesso si tratta di figure della malavita, che vogliono impossessarsi di opere celebri per sfruttarle come occasione di riciclaggio, esportarle, rivenderle o esporle nelle loro abitazioni. Così autentiche pietre miliari dell’archeologia e della storia dell’arte finiscono nelle case di mafiosi o magnati dell’Est europeo (si pensi ai 17 dipinti di Castelvecchio rintracciati in Ucraina).
Dal 1970 al 2015, solo in Italia sono state trafugate 438.729 opere, di cui solo 134.614 sono state ritrovate. Thomas D. Bazley ha spiegato che il 90 per cento delle opere rubate non viene recuperato. Eppure, è molto ristretto il mercato di quei capolavori «negati», che possono essere venduti per circa un decimo in meno del loro valore. Inoltre, si sa, un dipinto «catalogato» è difficile da far circolare nei circuiti ufficiali.
La conseguenza è che, come ha ricordato Justin Peters, la maggior parte dei quadri, delle sculture e dei resti archeologici rimane «nelle mani di chi li ruba». Perché le piste investigative sono difficili da ripercorrere. E soprattutto perché non si è finora lavorato per costruire una politica di tutela comune.
Sarebbe opportuno uscire da un’ottica nazionale per confrontarsi con un fenomeno drammaticamente globale. Per dar vita a un organismo capace di elaborare un database generale da aggiornare continuamente. Una task force cui dovrebbero aderire i ministeri della Cultura e le forze di polizia dei maggiori Paesi del mondo. Si potrebbe adottare come modello l’archivio ordinato in Italia sin dal 1969 dal Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale.
Ma prima ancora, come auspicavano gli autori dell’appello pubblicato all’indomani dei fatti del Museo di Castelvecchio (da Agosti a Montanari, a Settis), sarà opportuno infrangere il velo di silenzio e indifferenza che spesso, dopo i clamori iniziali, avvolge le opere rubate, esponendo le istituzioni museali a trattative e ricatti; e costringendo, infine, alla «più amara dimenticanza sociale della perdita subita».