Corriere della Sera, 1 ottobre 2016
Tutti al funerale di Shimon Peres
È un funerale di Stato, non di popolo: troppi grandi tengono la gente alla larga. Ma non è ancora il funerale dei Due Stati e dei Due Popoli, quell’idea che Shimon Peres restava ultimo e tenace a propugnare. Nel sole di mezzogiorno, l’ultimo padre d’Israele va sottoterra fra le tombe di Rabin e Shamir, la sinistra e la destra. E sul Monte Herzl c’è la sensazione, o l’illusione, che la sua eredità politica non sia morta e sepolta. Tutta Gerusalemme il venerdì sembra un sepolcro silenzioso, 8 mila poliziotti, le strade bloccate, la diretta in streaming su migliaia di cellulari. Arriva Abu Mazen e lo fanno sedere in prima fila – la prima volta dopo sei anni —, come se non fosse il presidente di un’Autorità che non conta quasi nulla: «È passato molto, molto tempo…», mormora stringendo la mano a Netanyahu. Va al microfono Obama, presidente che tra poco non conterà nulla pure lui, e dice «grazie tante caro amico» guardando la bara: è una mezza citazione dell’«arrivederci amico mio» che Bill Clinton sospirò vent’anni fa per Rabin, quando si credeva nei «palestinesi uguali agli ebrei in termini di dignità e autodeterminazione», sapendo che «il popolo ebraico non è nato per governare un altro popolo». Parla lo stesso Clinton, senza voce ormai da un pezzo: «Dicevano che eri naif e troppo ottimista. Ma si sbagliavano: sapevi il fatto tuo». Infine, ecco Amos Oz. Che non ha portato l’abito delle cerimonie. Ma ha una domanda per i re nudi seduti davanti a lui, di settanta Paesi vicini e lontani: «Dove sono oggi gli uomini come Peres?».
Non qui. Sotto un tendone bianco, fra le note del Padre e Re nostro che Barbra Streisand aveva dedicato all’amico Shimon per i 90 anni, nel ricordo della figlia («farò ancora la tua insalata di pomodori e cetrioli») e nel tocco humour d’un figlio («sulla tomba, mio padre voleva la scritta “morto prematuramente”…»), i potenti che contano sono anche la photo opportunity di tante diffidenze. Obama abbraccia Abu Mazen, «la sua presenza ci ricorda che il processo di pace è un cantiere sempre aperto», ma è gelido con Netanyahu: «La prospettiva dell’indipendenza palestinese è più lontana che mai». Non ci sono leader arabi importanti: a Gaza, all’ora del funerale, Hamas brucia in strada le foto di Peres e attacca «il traditore» Abu Mazen. Pure Carlo d’Inghilterra è venuto a titolo privato, perché in settant’anni non s’è mai visto un Windsor metter piede nell’ex colonia. Hollande snobba l’arcinemico Sarkozy. Perfino il tollerante e imbarazzato Oz è costretto dal cerimoniale a stare di fianco all’ungherese Orbán, l’uomo dei muri. Inutile sedere vicini per recitare l’illusione della pace, i sassolini non si mettono solo sulla tomba: è l’occasione per togliersene qualcuno. «Peres pianse mio fratello morto e oggi io piango lui», ricorda Netanyahu in una commossa eulogia, ma sia chiaro che le differenze politiche restano: «Solo i forti resistono nel Medio Oriente – punta proprio il dito verso Abu Mazen, convitato di pietra – e la forza è la nostra garanzia, anche se gli obbiettivi sono la prosperità e la pace». Restano alla fine le scuse del presidente israeliano Rivlin e della destra che attaccò il premio Nobel: «Shimon, l’ammetto senza pudore sul bordo della tua tomba: perdonaci…». E quella stretta di mano, «grazie d’essere venuto», che Bibi concede ad Abu Mazen. «Un fatto politico di grande rilievo», commenterà Matteo Renzi: abbastanza per dire che Peres non è morto invano, troppo poco per dire che la sua idea rinascerà presto.