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 2016  ottobre 01 Sabato calendario

Storia di Sophie Täuber, uscita dall’ombra del marito genio

«Sofia è un cielo./ Sofia è una stella./ Sofia è un fiore./ Tutti i fiori sbocciano/ fioriscono per te. /Tutti i cuori bruciano/ ardono per te/… Da quando sei morta/ ringrazio ogni giorno che passa./ Ogni giorno trascorso/ mi avvicina a te». Così scriveva Jean Arp, inconsolabile per la scomparsa della moglie Sophie Täuber, morta a Zurigo, per una fuga di gas da una stufa difettosa, la notte fra il 12 e il 13 gennaio 1943. La coppia, per sfuggire alla occupazione tedesca in Francia, si era spostata in Svizzera, in attesa di un visto per gli Stati Uniti. Ma non vi arrivò mai. Per tre anni, il vedovo non riuscì a lavorare. Compose versi sulla donna amata. E anche in seguito, nonostante avesse una nuova compagna, scrisse sulla prima moglie elogi colmi di rimpianto: «La purezza espressiva dell’opera di Sophie Täuber è a stento ravvisabile dall’uomo senz’anima». I due si erano conosciuti a Zurigo nel 1915, a una mostra di Arp. Proprio in quel momento stava nascendo il movimento Dada e l’artista francese era tra i suoi fondatori. Sophie decise di condividere col suo compagno l’esperienza facendo del Dadaismo il loro terreno d’azione. Anche lei era un’artista. Nata a Davos nel 1889, aveva studiato arti libere e applicate a Monaco. Nel 1914 si era trasferita dalla sorella a Zurigo, dove si manteneva dipingendo ritratti e nature morte. Il sodalizio tra i due nacque forse sulle loro differenze: lei racchiusa nelle sue geometrie, lui esploratore del mondo, inventore di cosmi incantati. A dispetto della loro complessità, trovarono il modo di completarsi. Già l’anno seguente lavoravano insieme su grandi composizioni in stoffa e carta. «Tra noi era abolita ogni casualità, nessuna macchia, nessun intoppo, nessuno sfilacciamento doveva turbare il nostro lavoro», così l’artista descrive la loro relazione creativa. Si sposarono nel ‘22. Scelsero di vivere in Francia. Viaggiarono molto. Soprattutto in Italia: Firenze, Roma, Siena, Napoli, Pompei. Nel ’27, i due erano già l’uno lo specchio dell’altra, e quando a lei venne affidata la ristrutturazione di un café- dansant a Strasburgo, chiese la collaborazione del marito. Täuber sperimentava diversi stili. Dipingeva in griglie rigide e a flusso libero: forme geometriche, figure umane e astratte. Faceva collage, sculture in legno, ma era pure ballerina, coreografa, performer, insegnante di arti applicate, architetto di interni, progettista di vetrate e pitture murali. Dal ’37, anche redattrice e grafica della rivista Plastique. Non c’è retrospettiva su Jean Arp che non sia accompagnata dalle opere della prima moglie: papier collier, marionette, composizioni geometriche, legni dipinti. E che non abbia i lavori a quattro mani, sui quali è impossibile riconoscere la mano dell’uno o dell’altra. Lo scambio che li ha nutriti per quasi trent’anni non si è interrotto nemmeno dopo la morte di lei se, negli anni Cinquanta, Arp scriveva ancora: «È stata Sophie a mostrarmi il cammino, attraverso l’esempio del suo lavoro e della sua vita inondata di luce». La sua scelta forte è stata non vivere all’ombra del marito, come toccò a Josephine Nivison con Edward Hopper, né essere la sua musa, come Dora Maar per Pablo Picasso, ma fonte di ispirazione, compagna di strada in un progetto artistico condiviso. Täuber ha esposto in tutta Europa, ha avuto riconoscimenti e fama personale, indipendenti dalle fortune del marito, eppure, alla sua morte, sul certificato venne indicata come “casalinga”. È l’atroce destino di molte artiste del primo Novecento. Una piccola rivincita postuma però Sophie l’ha ottenuta. Il suo Paese, la Svizzera, ha voluto ricordarla su una banconota. Se però chiedete ai suoi concittadini chi è quella signora con un cappellino calato sul capo, stampata sui 50 franchi, in pochi sapranno dirvi il nome.