la Repubblica, 1 ottobre 2016
Accordo sul clima, l’Europa accelera
Dopo la firma di Obama e di Xi Jinping, anche l’Europa si prepara a ratificare l’accordo mondiale contro il riscaldamento globale, che quasi 200 nazioni avevano siglato nello scorso dicembre a Parigi. Manca ancora, tecnicamente, il voto, la prossima settimana, del Parlamento europeo, ma, dopo il via libera di ieri, da parte di un Consiglio straordinario dei ministri dell’Ambiente, nessuno dubita che, fin dai prossimi giorni, Bruxelles sarà in grado di depositare all’Onu i propri documenti di ratifica, nonostante i brontolii di paesi dell’Est Europa come la Polonia. Sembra un passaggio puramente formale e, invece, il sì europeo significa molto di più.
Il meccanismo varato a Parigi prevede, infatti, che l’accordo diventi vincolante per i firmatari, 30 giorni dopo aver raggiunto la ratifica da parte di 55 paesi, responsabili di almeno il 55 per cento delle emissioni. Finora il testo è stato firmato da 61 paesi, ma per un totale di emissioni – nonostante il sì di Cina e Usa – che si ferma al 48 per cento. Bruxelles sale a bordo con il 12 per cento delle emissioni mondiali e, dunque, la ratifica europea farà automaticamente entrare in vigore i vincoli studiati a Parigi. Nel concreto, questi vincoli non sono particolarmente stringenti. Sono quelli che gli stessi paesi avevano già autonomamente indicato. Ad esempio, per l’Europa, una riduzione del 40 per cento delle emissioni prima del 2030. Entro la stessa data, invece, la Cina si limiterà a stabilizzare le proprie, ponendo fine al loro aumento. Ma l’importanza politica, simbolica, psicologica dell’accordo di Parigi è superiore alla sua importanza pratica. Per la prima volta, il testo coinvolge paesi emergenti e paesi sviluppati; per la prima volta si mette in moto un meccanismo di verifica e di rinnovo degli impegni presi singolarmente dalle nazioni; per la prima volta si fissa ufficialmente l’obiettivo di contenere il riscaldamento entro i 2 gradi per la fine del secolo.
È anche una delle prime volte che un accordo così complesso arriva alla ratifica quasi a marce forzate: meno di un anno dalla sigla del testo. C’è chi dice che questo senso di urgenza derivi dal fatto che il 2015 e il 2016 hanno inanellato, finora, una serie ininterrotta di 16 mesi con temperature record rispetto all’ultimo secolo e mezzo. C’è chi dice che, se Parlamento e Consiglio europeo, a passo di corsa, completassero formalmente la ratifica entro venerdì prossimo, l’accordo entrerebbe in vigore 30 giorni dopo, il 7 novembre, in tempo, dunque, per un solenne brindisi all’apertura della nuova sessione di trattative sul clima alla Conferenza Onu. È probabile, però, che questa corsa a perdifiato tenesse d’occhio un’altra – assai più sostanziale – scadenza: le elezioni presidenziali americane dell’8 novembre. La vera mina sul percorso delle trattative mondiali sul clima è infatti la nomina di uno scettico come Trump alla Casa Bianca. Una marcia indietro americana sugli accordi di Parigi farebbe crollare il castello degli impegni di tutti gli altri paesi. Ma un accordo entrato in vigore prima di fine anno e di un eventuale insediamento di Trump, legherebbe le mani al futuro presidente. Far saltare un testo ratificato e già vincolante è infatti, anche politicamente, più difficile che azzoppare un trattato ancora sui tavoli delle cancellerie.