La Stampa, 1 ottobre 2016
Ascesa e declino di Deutsche Bank
Da 14 a 5,4 miliardi di dollari: se venissero confermate le indiscrezioni della Afp, Deutsche Bank dovrebbe pagare una multa molto più bassa di quella inizialmente minacciata dal Dipartimento di Giustizia statunitense per il suo coinvolgimento nella vendita di titoli coperti da mutui subprime. Una notizia accolta ieri in Borsa con un balzo che ha portato il titolo a chiudere in rialzo del 6,39%. In mattinata il titolo era sceso per la prima sotto la magica soglia dei 10 euro. «La fiducia è l’inizio di tutto», aveva scritto il Ceo John Cryan ai 100.000 dipendenti del gruppo per invitarli a mantenere la calma di fronte a quello che aveva definito un attacco speculativo. «La fiducia è l’inizio di tutto» prometteva la più grande banca tedesca in uno slogan pubblicitario risalente a due decenni fa. È da lì, dalla seconda metà degli Anni Novanta, che bisogna partire per capire le difficoltà attraversate oggi dal primo istituto della prima economia di Eurolandia e inquadrare il tentativo di Cryan di controsterzare.
Nel 1999 Deutsche Bank rileva l’americana Bankers Trust e compie un balzo decisivo per affermarsi negli Usa. I tedeschi sognano di competere alla pari coi big della finanza statunitense. Il veicolo per riuscirci: l’investment banking. Il mercato bancario tedesco, iperframmentato, non consente del resto grossi margini di profitto nel retail. E così nei piani dell’allora amministratore delegato, Rolf Breuer, e poi del suo successore, Josef Ackermann, l’investment banking diventa sempre più centrale – e Deutsche Bank sempre più dipendente da questo settore. Sono gli anni in cui Ackermann indica l’astronomico obiettivo di un Return on Equity (la redditività del capitale proprio) del 25% e viene fotografato mentre sorride e fa il segno della vittoria a margine di un processo che lo vede co-indagato, diventando per molti tedeschi il simbolo del capitalismo finanziario avido e arrogante; sono gli anni dei maxi bonus e dell’ascesa del mago della finanza Anshu Jain (e dei suoi collaboratori, ribattezzati “Anshus Army”), che è succeduto nel 2012 ad Ackermann insieme a Jürgen Fitschen; gli anni in cui Deutsche Bank entra fra le prime tre banche d’investimento al mondo (nel 2007, lo stesso anno in cui il titolo schizza a oltre 100 euro); gli anni in cui iniziano ad accumularsi i problemi che costeranno caro all’istituto – legati spesso proprio all’investment banking. Dal 2012 a oggi Deutsche Bank ha già pagato 12,7 miliardi di euro per chiudere diversi contenziosi legali. E al momento è ancora coinvolto in quasi 8.000 vicende giudiziarie in giro per il mondo.
La svolta arriva nel 2007, con l’arrivo della crisi. Deutsche Bank tiene – anche se con qualche inciampo d’immagine. Nel 2008 Ackermann pronuncia una frase che provocò forti irritazioni nella Berlino politica e che i tedeschi non hanno dimenticato: «Mi vergognerei di accettare soldi statali durante la crisi».
L’inglese John Cryan si trova oggi a dover rilanciare un gruppo che continua a giocare un ruolo chiave per finanziare le imprese tedesche e la loro crescita. La sua “Strategia 2020” prevede di semplificare le strutture, rafforzare la base di capitale, ridurre i rischi, uscire da mercati non essenziali, puntare sui prodotti digitali, riorganizzare l’infrastruttura IT, finora punto dolente dell’istituto e tagliare 9.000 posti in tutto il mondo, di cui 4.000 in Germania. Il gruppo punta a vendere Postbank, gigante del retail con 14 milioni di clienti. Di acquirenti, però, non se ne vedono. Più redditizia sarebbe una cessione della controllata Dws (gestione patrimoniale), che appare però poco probabile. Per ora c’è da riconquistare la fiducia, «l’inizio di tutto».