La Stampa, 30 settembre 2016
I sauditi e il problema del prezzo troppo basso del petrolio
Ad Algeri i Paesi produttori di petrolio raccolti nel cartello dell’Opec hanno raggiunto un accordo di massima per tagliare la produzione. Riducendosi l’offerta, a parità di domanda, il prezzo del petrolio dovrebbe salire. L’accordo è «di massima», perché le quote di produzione di ogni paese si conosceranno solo fra un paio di mesi.
Fino a qualche tempo fa – fino all’incontro di Doha dello scorso aprile – i sauditi volevano un accordo per lasciare invariata la produzione, ma a condizione che gli iraniani avessero fatto lo stesso, il che significava che rinunciavano a produrre di più per tornare ai livelli antecedenti le sanzioni. Cosa che non avvenne. Va tenuto sempre presente che fra l’Arabia Saudita (sunniti) e l’Iran (sciiti) la partita in gioco non è solo petrolifera, ma «geopolitica».
E se non ci fosse un accordo anche questa volta? E se, oltre all’Iran, anche la Libia e la Nigeria, volessero tornare – finite le sanzioni, le guerre, e il terrorismo che hanno avuto – a produrre a pieno regime? Per ridurre la produzione complessiva dell’Opec, a quel punto, i sauditi sarebbero costretti a tagliare – e non poco – la propria offerta, mentre gli altri la incrementano. Se il prezzo del petrolio – fra oscillazioni – restasse piatto per effetto del taglio della produzione saudita, ecco che questi avrebbero dei ricavi ridotti – ossia un prezzo stabile moltiplicato per un volume di barili minore – e gli altri – quelli che hanno aumentato la produzione – dei ricavi maggiori.
Non solo, col prezzo più o meno stabile, e sempre per effetto del taglio della produzione saudita, il petrolio estratto frantumando le rocce – lo «shale oil» – dai pozzi efficienti negli Stati Uniti tornerebbe in produzione.
Se i loro ricavi – per l’agire del meccanismo descritto – si riducono, i sauditi debbono tagliare ancora la spesa pubblica, che è finanziata per una parte cospicua dalla «rendita petrolifera». Il loro deficit pubblico corrente è pari al 13% del Pil (sic!). Il finanziamento del deficit ha visto poco tempo fa una prima emissione di obbligazioni. Per ammorbidire i tagli alla spesa necessari, i sauditi potrebbero portare in Borsa la loro maggiore impresa, L’Aramco, che, se avesse un prezzo pari alle riserve accertate moltiplicate per il prezzo corrente del petrolio, varrebbe molto più di Apple. Il controvalore dei titoli collocati potrebbe essere spalmato nel tempo per ammorbidire i tagli alla spesa pubblica.
L’Arabia Saudita vuole – grazie ai limiti alla produzione – dei prezzi maggiori per governare il proprio bilancio statale, ma molti dei Paesi che dovrebbero concorrere a ridurre l’offerta hanno un interesse opposto, perché possono ottenere dei ricavi maggiori se sono solo i sauditi a tagliare la produzione. La conclusione è che l’Arabia Saudita non riesce più a governare, come in passato, il mondo del petrolio.